Cantari arturiani
Maria Bendinelli Predelli
Letteratura arturiana: i cantari
1. Il genere cantare
Vengono chiamati cantari dei poemetti brevi (vanno dai 400 versi a qualche migliaio) di natura narrativa. L’argomento è generalmente epico-cavalleresco e romanzesco, tanto nella sua variante arturiana che in quella carolingia; ma ci sono anche cantari religiosi (sulla vita dei santi), cantari novellistici e cantari d’argomento classico. (Levi, 23-24). Il metro caratteristico del genere è l’ottava (strofa di otto endecasillabi con rime alterne nei primi sei versi, a rima baciata negli ultimi due: ABABABCC), anche se ci sono dei cantari in sestine. La caratteristica del genere è quella di essere destinato alla comunicazione orale, e più precisamente ad essere cantato in pubblico, a scopo d’intrattenimento, dai canterini, un’evoluzione dell’antica figura del giullare (da qui il nome cantare che in italiano significa ‘to sing’). Il cantare canonico viene inoltre considerato un genere di carattere popolare e non letterario, per cui non sono considerati cantari il Teseida e il Ninfale fiesolano del Boccaccio, né i poemi epico-cavallereschi di Pulci, Boiardo, Ariosto, pure redatti in ottave, né altri poemi che appaiono rivolti piuttosto a un pubblico di lettori che di ascoltatori. Le suddivisioni delle narrazioni più lunghe si chiamano a loro volta cantari, per cui spesso il titolo dell’opera si trova al plurale (e.g. I cantari della Guerra di Troia, I Cantari di Amadio, I cantari di Lancillotto, ecc.).
In quanto narrazione breve di argomento più o meno leggendario, il cantare italiano appare affine al lay o romance medievale anglosassone e all’Abentueurroman tedesco, e continuazione di un genere narrativo destinato ad essere comunicato oralmente, rappresentato precedentemente in Francia dai lais (resi celebri da Marie-de-France) e dai più antichi poemetti cortesi, anche se i cantari italiani di norma non hanno rapporti diretti con i lais francesi. Molti cantari infatti appaiono versificazioni di fonti prosastiche e, quindi, scritte: la loro funzione appare quella di estendere a un pubblico più largo, mediante la comunicazione cantata, le storie più suggestive dell’immaginario narrativo medievale.
2. Il cantare nel contesto della letteratura arturiana
È nella seconda metà del Trecento che sembra collocarsi la maggior parte dei cantari di materia arturiana. I dati relativi alla composizione e alla trascrizione di queste opere, per lo più anonime, sono scarsissimi, per cui è difficile stabilire una cronologia, anche relativa. Fra i pochi appigli cronologici stanno le date 1369-1373 apposte nel ms BNCF Magl. VIII.1272 (già Gaddi 520) che ci trasmette il Bel Gherardino, le Ultime imprese e morte di Tristano e frammenti di altri cantari (Cantare della Vendetta, Cantare di Lasancis). Un altro dato cronologico certo è il 1388, data di morte di Antonio Pucci, che eccezionalmente ci ha trasmesso il suo nome come autore di cantari: fra gli altri suoi, sono di materia arturiana il Bruto di Bertagna e il Gismirante. Molti cantari sono trasmessi da manoscritti quattrocenteschi, ma potrebbero risalire al secolo precedente. Altri infine, i più tardi, sembrano riprendere la materia da cantari più antichi e rielaborano motivi sparsi variamenti disseminati nella letteratura italiana d’argomento bretone.
Salvo eccezioni, i cantari italiani di materia arturiana appaiono composti ciascuno singolarmente, senza collegamento consistente con una saga o un racconto ciclico: fra i protagonisti, pur appartenenti alla corte di Artù, compaiono spesso personaggi secondari e a volte sconosciuti alle fonti primitive. Galvano compare da protagonista soltanto nel cantare della Ponzela Gaia; Lancillotto è uno dei personaggi principali solo nella riduzione in ottave de La Mort le roi Artu (I cantari di Lancillotto o La struzione della Tavola Ritonda) e, insieme a Tristano, nel cantare del Duello al petrone di Merlino. Il figlio di Lancillotto, chiamato in Italia Galasso o Galeatto, compare già eremita, e supera avversari dalle connotazioni diaboliche in virtù del favore accordatogli da Dio. Tristano invece, in corrispondenza della nota fortuna di questo personaggio in Italia, è il protagonista di un piccolo ciclo di cantari, incentrati sull’episodio cruciale della morte di Tristano per mano del re Marco, insieme ad Isotta (la leggenda italiana aggiunge anzi al racconto del romanzo francese un epilogo con la vendetta su Marco dei cavalieri di Artù). Tristano è pure il protagonista del già menzionato Duello al Petrone di Merlino. Tutti gli altri cantari (Carduino, Bel Gherardino, Gismirante…) sono incentrati intorno a protagonisti minori, e con nomi che non sempre sono riconducibili direttamente alle fonti francesi più note.
Nel contesto della letteratura arturiana, i cantari trovano spesso paralleli nei volgarizzamenti italiani di romanzi francesi in prosa, che sono presumibilmente il punto di partenza delle versificazioni canterine (vedi la trattazione individuale dei cantari). In certi casi non è possibile indicare le tappe intermedie che devono aver mediato i rapporti con gli originali francesi. Per esempio, le storie del Carduino e del Bel Gherardino trovano paralleli soltanto in alcuni poemi cortesi della fine del XII e l’inizio del XIII secolo, ma i rapporti fra questi cantari e i poemi francesi corrispondenti sono più complicati di un semplice rapporto fra racconto originario e racconto derivato (sia pure con intermediari) e sono stati oggetto di studi e ipotesi varie. Di altri cantari le fonti rimangono sconosciute, pur se alcuni elementi trovano corrispondenze frammentarie in altre opere di letteratura arturiana; in altri casi, infine, è possibile che l’autore della storia, lavorando con materiali della traduzione arturiana, abbia tentato di “rivestire di nuove penne” un motivo tradizionale, variando il nome dei protagonisti e le circostanze della vicenda, o accorpando in un solo racconto motivi trovati in fonti diverse, o addirittura inventando una storia “nuova” a partire da dati tradizionali. Nella nostra trattazione, partiremo dai cantari le cui storie sono poco note nel resto della tradizione arturiana per risalire poi a quelli di cui sono noti gli antecedenti, soffermandoci allora ad illustrare le trasformazioni avvenute nella ré-écriture canterina.
3. Il motivo del cavaliere dalle armi incantate
Tre cantari sono costruiti attorno a un nucleo narrativo che sembra sconosciuto alla narrativa francese: il motivo del ‘cavaliere dalle armi incantate’ (Daniela Delcorno Branca 1998, 201-223). Del Cantare di Lasancis (il più antico dei tre, a giudicare dalle testimonianze manoscritte) rimangono soltanto le prime dieci ottave, che collocano l’episodio in una fase della storia di Tristano immediatamente successiva al Duello al Petrone di Merlino: “…in parte dove tratta la scrïura / po’ che Tristano combaté al Pretone / ’on Lanceloto come il libro pone.” (1.6-8). L’episodio abbozzato nel cantare rimane limitato alla sua situazione iniziale, ma ci sono abbastanza elementi per collegarlo con un episodio che compare nella Tavola Ritonda (romanzo in prosa composto a Firenze verso la metà del XIV secolo). Nel romanzo compare infatti a un certo punto (cap. 87) un personaggio che ha lo stesso nome del cavaliere del cantare, e proviene, come lui, dall’Isola Riposta. Lasancis è stato fornito dalla sorella, signora dell’isola di Vallone (Avalon?) di una lancia incantata che abbatte da cavallo chiunque tocchi; e riesce così a far prigionieri non soltanto i migliori cavalieri della Tavola Rotonda, ma persino il re Artù, con l’intenzione di farli morire, per vendicare l’uccisione di certi suoi nipoti (nel cantare si tratta invece di un fratello ucciso da Lancillotto). Soltanto Tristano, ritrovato dalla regina Ginevra che era andato a cercarlo nel regno del re Marco, e messo sull’avviso da un eremita, riesce a condurre il duello con un’astuzia tale da determinare il rovesciamento delle sorti e la liberazione dei prigionieri.
Quello che nel Cantare di Lasancis era una lancia fatata, diventa uno scudo fatato, e perciò ‘falso’ nel Cantare del Falso Scudo; l’eroe liberatore non è più Tristano ma Galasso, il figlio di Lancillotto, l’eroe puro per eccellenza. I due cantari del Falso Scudo sono tramandati da un manoscritto certamente più tardo di quello che ha conservato il frammento del Lasancis, ma forse conservano brandelli di una tradizione più antica. Daniela Delcorno Branca ritiene infatti che l’autore della Tavola Ritonda abbia rielaborato nell’episodio di Lasancis un racconto preesistente (oggi perduto), in cui l’eroe doveva esssere Galasso – come nel Cantare del Falso Scudo e nel Cantare di Astore e Morgana -, e non Tristano, e l’episodio del romanzo sia “chiaramente una traduzione in termini razionali, propri di una mentalità pratica, comunale e borghese, dell’originaria vicenda magico-miracolistica” (D. Delcorno Branca1998, p. 209). C’è di più: il malvagio cavaliere dal ‘falso scudo’
Era figliuol d’una fata gentile
Ch’avea un suo castello entro in u.llago:
d’arte magica ritto avea lo stile,
sotto l’acqua istava quel castel vago,
non si potea vedere il suo simile. (I 11.1-5)
Questa caratterizzazione fa venire alla mente Mabuz, personaggio del poema tedesco Lanzelet, figlio per l’appunto della Dame du Lac, e che riesce a fare prigioniero Lanzelet perché un incantesimo gli ha tolto tutto il suo coraggio. Il poema tedesco appartiene agli inizi del XIII secolo, e doveva avere come referente un poema anglo-normanno perduto. Impossibile seguire il filo che dal poema anglonormanno trasmette il motivo del personaggio negativo figlio della Dama del Lago e che rende codardi per forza d’incantesimo gli eroi più coraggiosi; ma il contatto dev’essere certamente esistito. Del resto l’intenzione dichiarata dal cavaliere fatato di voler smascherare la relazione adulterina di Lancillotto e Ginevra ricorda (aggiungendovi anche quella di Tristano e Isotta) il motivo dei tentativi di Morgana di far conoscere ad Artù l’adulterio di Ginevra, ricorrenti nei romanzi e evidente anche nel Lai du Cor (1170-1180) in cui il misterioso re Mangon invia alla corte di Artù un corno incantato che verserà il suo contenuto se a portarlo alle labbra è una donna adultera. L’episodio, che risente di motivi presenti in composizioni ‘arcaiche’, sarà dunque di ascendenza francese.
Il che non toglie che i Cantari del Falso Scudo siano con ogni probabilità un prodotto assai tardo, come si deduce tra l’altro dalla pesante contaminazione col genere della leggenda agiografica, e con motivi della tradizione carolingia. Il meraviglioso magico di Mabuz – e di Lasancis – diventa infatti un incantesimo esplicitamente diabolico, visto che nello scudo “tre dimon per incanto v’eran dentro” (I 13.5), che ne usciranno alla fine della vicenda : “Uscironne gridando con molesti, / dicìeno per l’aria : “Atar non ti potemmo: / noi t’aviàn giunto laddove volemmo!” (II 34.6-8), e Galasso è un eremita a cui Dio invia direttamente un messaggio per mezzo di un angelo.
Nel Cantare di Astore e Morgana l’ambientazione è più consona all’immaginario bretone: la mandante dell’ostilità torna ad essere Morgana, alla quale vengono attribuite, come da tradizione, abilità di guaritrice; Astore riceve da lei la sua nuova armatura; il cavaliere viene trasportato magicamente per nave verso la sua destinazione. L’eroe liberatore è di nuovo Galeatto, anche se non si conoscono le circostanze del suo intervento, a causa di un’importante lacuna. Ma anche qui la potenza ostile alla corte d’Artù viene interpretata confessionalmente come demoniaca (la traduzione in termini cristiani della mitologia celtica è una caratteristica presente fin dagli inizi della letteratura bretone in lingua francese): l’armatura di Astore è stata fatta in inferno, e demoni sono il nocchiero della nave e il cavallo stesso di Astore (si pensi in prospettiva al cavallo che trasporta Malagigi sul luogo della battaglia di Roncisvalle nel Morgante del Pulci).
Sembra insomma che le tre versioni italiane del motivo del cavaliere dalle armi incantate derivino, indipendentemente l’una dall’altra, da un qualche episodio a monte, oggi perduto. Si possono soltanto indicare, tentativamente, degli elementi presenti nella letteratura romanzesca francese che potrebbero aver contribuito alla formazione del motivo: si pensi all’episodio di Branor le Brun, il cavaliere della ‘Tavola Vecchia’ che, raggiunta ormai l’età di centovent’anni, viene a provarsi con i più arditi cavalieri della nuova Tavola Rotonda, e tutti li abbatte senza difficoltà, incluso il re Artù, nel Romanzo arturiano di Rustichello da Pisa. Il romanzo in prosa (dipendente dal francese Roman de Palamidès, ormai frammentario) e il Cantare di Astore e Morgana concordano anche nell’attribuire a Ginevra il disperato tentativo, fallito, di distogliere il re Artù stesso dal prendere le armi:
ma lla reina con doloroso inciampo
con assai donne gli tenìe il destriere;
ma ’l re dissse: “Dama, se io scampo
che io non giostri, e’ sarà mestiere
colle mie mani oggi i’ m’uccida”,
ond’ella il lasciò ir con grande strida (32.3-8)
Et quant la reïne Genevre voit que son baron demande sez armes, elle s’en vient tantost a llui, et se laisse cheoir a sez piez, et li dit: «Ha, mon seingneur, merci, pour la douce Mere Deu, aiés pitié de voz meïsmes! … ». Li roi la fait hoster devant lui, et dit qu’il ne s’en remanderoit pour rien dou monde. (file:///Users/mariapredelli/Documents/Ricerca/Cantari%20arturiani/FreeDownload/bibit001187.xml.html, accessed Feb. 26, 2010)
Branor li Brun non ha armi incantate, è così forte soltanto perché appartiene alla “Tavola Vecchia” di Uter Pendragon, ma a più riprese Artù sospetta che si tratti di un incanto: «Es tu fentesmes ou enchantemant, qui estes venus par tot mon ostel mettre a honte?»….« et nepourquant je voz di tot voiremant que je ne puis croire qu’il soit chevalier, mes aucun enchantemant». Infine, armi o scudi incantati non sono certo estranei al patrimonio dei racconti arturiani: basti pensare allo scudo spezzato che Morgana vorrebbe inviare ad Artù (Tavola Ritonda, cap. XXVIII, Roman de Tristan, Lös. 37) o allo ‘scudo contraffatto’ che Tristano indossa al torneo di Rocca Dura (Tavola Ritonda, capp. LXXX, LXXXII, Lös. 190, 192), destinati a rivelare l’adulterio fra Lancillotto e Ginevra, e quindi con intenzioni ostili agli eroi della Tavola Rotonda.
4. Gismirante
Se i cantari che elaborano il motivo del cavaliere dalle armi incantare sono composti di un solo episodio, relativamente compatto e concluso, i cantari Gismirante e Ponzela Gaia risultano invece dalla giustapposizione di episodi e sequenze apparentemente di diversa provenienza.
Nel Gismirante di Antonio Pucci la storia è modellata secondo una struttura narrativa tradizionale a due tempi, simile a quella dei poemi cortesi di Chrétien de Troyes. Nel primo tempo il giovane Gismirante riesce a risolvere il problema della corte di Artù, dove vige il costume di non mettersi mai a tavola se non dopo che sia arrivata la notizia di una qualche avventura, riportando a corte un capello biondo, che per la sua bellezza lascia presagire un’avvenenza assolutamente eccezionale nella donna che l’ha perduto. Nel secondo tempo Gismirante trova e conquista la donna stessa. Ma la seconda quête si complica con la perdita della principessa, rapita da un ‘uom selvaggio’ lungo la strada del ritorno, e quindi lo schema della quête si rinnova. Il racconto si configura così come una struttura narrativa a ‘ondate’, o a rimbalzo, una formula retorica tipica della narrativa popolare tradizionale, come risulta anche dagli schemi della fiaba delineati da Propp. Nel moltiplicarsi delle avventure, il cantare del Pucci riesce comunque a mantenere una certa coerenza narrativa, visto che la donna il cui capello è l’oggetto della prima quête è lei stessa l’obiettivo della seconda quête; e la fata incontrata da Gismirante nella prima parte della storia, e gli animali aiutati nel corso della seconda quête, contribuiranno al sucesso della terza ed ultima quête.
Nel cantare si riconosce una singolare combinazione di elementi provenienti da tradizioni diverse. Numerosi ovviamente gli elementi che appartengono alla tradizione romanzesca: il tratto narrativo del figlio mandato dal padre morente alla corte d’Artù (v. Cligès), il già menzionato costume di aspettare notizie di un’avventura prima di mettersi a tavola, gli incontri con fate seducenti, la conquista della principessa di un paese lontano, il rifiuto della meritata mano della figlia del re… Anche la figura dell’uomo selvaggio ha una prestigiosa tradizione nella letteratura di materia bretone, dalla Vita Merlini di Geoffrey of Monmouth all’Yvain di Chrétien de Troyes, al Partonopeus de Blois, al Claris et Laris; ma raramente compare come rapitore di donne, ed è perciò tanto più notevole il risalto dato nel cantare a questa figura. La fuga della principessa fa pensare all’Escoufle di Jean Renart (ca 1200), così come la disgrazia che sopravviene mentre uno degli amanti è addormentato (nell’Escoufle un uccello da preda rapisce un’aumôniere e questo determinerà la separazione degli amanti). La reazione di Gismirante alla notizia del tributo da pagare al Porco Troncascino ricorda quella di Tristano, nel romanzo in prosa, all’annuncio del tributo da pagare all’Amoroldo. E’ interessante che si ritrovino in questo cantare, relativamente tardo, dei motivi folklorici presenti in narrazioni arcaiche, come quello del capello d’oro, elemento ‘scatenante’ per la ricerca della sposa, menzionato nel Tristan di Goffredo di Strasburgo, e lo strano cinghiale, qui chiamato Porco Troncascino, che già Edmund Gardner faceva risalire al mitico ‘porcus Troit’, un cinghiale di cui parlano due antichi documenti gallesi: la Historia Brittonum (o piuttosto la seconda parte dell’opera, che contiene le Marvels of Britain), attribuita al cronisca gallese Nennius, degli inizi del IX secolo; e la più antica delle narrazioni leggendarie del gallese Mabinogion, Kulhwch and Olwen, in cui il terribile cinghiale è chiamato Twrch (=cinghiale) Trwyth (Gardner, 250n). Insomma, i motivi presenti nella storia romanzesca fanno pensare che il Gismirante dipenda da un testo immerso nella cultura romanzesca francese, forse ancora del XIII secolo.
Ma attrettanto consistenti sono i motivi che in queso cantare sembrano emergere da un repertorio narrativo francamente popolare e folklorico, senza rapporto né con la tradizione letteraria romanzesca né con i costumi e i valori della società feudale, presenti nel repertorio dello Stith-Thompson: la ripetizione ternaria nel motivo degli animali riconoscenti (B.364.4, B. 391.3), la bacchetta che col tocco fa asciugare l’acqua (reminiscenza di un motivo riflesso nel racconto biblico del passaggio del Mar Rosso a piedi asciutti?), e il motivo dell”External Soul”( E710). Si ricordi poi che lo schema narrativo del cantare aderisce perfettamente a quello della quête proppiana. In altri termini, si assiste già in questo cantare ad un processo che si manifesterà sempre più chiaramente nel corso della letteratura canterina, e cioè la contaminazione dei racconti romanzeschi tradizionali con schemi e motivi di una tradizione più sotterranea e popolare, che determina i primi esempi di emergenza, al livello della letteratura, di elementi del “folklore”.
Quanto alla principessa che non deve vedere nessuno (“e.llo re fe’ da sua parte bandire / che, qual dalla donzella fie veduto, / subitamente lo farà morire, / e che si stia in casa come muto” [I 25.2-5]), piuttosto che alla leggenda di Lady Godiva suggerita dal Levi, sembra di poter qui riconoscere la prima occorrenza documentata di un motivo che si ritroverà più tardi nelle Mille e una Notte (motivo C312.2.1 del Motif-Index dell’Aarne-Thompson: Tabu: looking at princess on public appearance). Ma le storie dove compare questo motivo non si trovano nella più antica versione araba conosciuta, risalente al XIV secolo. E’ quindi assai probabile che nel Gismirante si abbia la più antica testimonianza del motivo, la cui origine potrebbe poi essere la trasposizione in chiave leggendaria di un costume storico reale, relativo ad antiche cerimonie religiose cinesi. In Cina, infatti,
The Emperor and only the Emperor could act as the mediator between Heaven, Earth and the people. Each year had to make sacrifices and offerings… When he traveled from the palace to the Temple of Heaven, the streets were cleared and everyone was kept behind locked doors, so that nothing should distract the Intercessor from the task of offering sacrifices to make amends…he was … there to ensure that at the most crucial point of the year, the winter solstice, the balance was maintained and the swing of yin to yang and viceversa was sustained.
Si osservi che anche nel cantare italiano il divieto di assistere al passaggio della principessa si applica proprio al tragitto dal palazzo alla chiesa, un particolare che non ricompare in nessuna delle occorrenze delle Mille e una Notte.
Se nel Gismirante ha trovato posto un motivo novellistico proveniente dall’Oriente, avremo ancora una volta una testimonianza dell’esistenza di sotterranee correnti narrative a trasmissione orale (alimentate, in questo caso, dai mercanti che commerciavano con l’Oriente?), e allo stesso tempo dell’eterogeneità dei materiali che vengono a confluire nella composizione del cantare.
5. Ponzela Gaia
Anche nel cantare della Ponzela Gaia si riscontra la combinazione di motivi disparati ma, con maggior coerenza, tutti di origine romanzesca. Galvano è l’eroe di questo cantare, ma l’avventura che gli è attribuita appartiene a rami certamente secondari della tradizione arturiana. Impegnata la testa in una scommessa con messer Troiano su chi porterà a corte la cacciagione più bella, Galvano incontra nella foresta una ‘serpa’ che ingaggia battaglia con lui e sta quasi per sconfiggerlo quando scopre l’identità del cavaliere. La ‘serpa’ si rivela allora come la damigella Gaia, figlia di Morgana e innamorata di Galvano. Scatta il tema lanvaliano, con la conseguente gelosia della regina, di cui Galvano ha respinto le avances, e il salvataggio dell’eroe condannato a morte. L’episodio ha però qui un seguito imprevisto: scoperto l’amore della figlia per Galvano, Morgana punisce aspramente la figlia imprigionandola in una cella parzialmente sott’acqua. Al tema lanvaliano viene allora giustapposta la quête di Galvano che riesce finalmente a liberare l’amata e a punire Morgana.
È probabile che i motivi costitutivi del cantare si trovassero già tutti presenti nella letteratura franco-veneta: la scommessa che ha per posta la testa di uno dei due scommettitori si ritrova nel cantare ‘carolingio’ di Madonna Elena (e la storia fu dipinta, fra il 1377 e il 1380, sul soffitto del Palazzo Chiaramonte a Palermo); la trasformazione di un serpente in damigella compare nel Roman de Belris, un poemetto franco-veneto arrivatoci frammentario (oltre ad essere il tema fondamentale del cantare di Carduino); il motivo lanvaliano dell’infrazione del segreto è largamente diffuso, e il salvataggio in extremis dell’eroe per l’apparizione dell’amante soprannaturale si ritrova nel cantare di Liombruno. Si può insomma pensare che il cantare sia stato composto in Italia sulla base di narrazioni coeve, anziché risalire a fonti francesi più antiche.
Le tappe della quête rimandano a motivi sparsi della tradizione romanzesca di tipo bretone: un duello vittorioso con Breus sans-pitié, luogo divenuto ormai comune nella letteratura romanzesca (cantari di Febus-el-Forte, romanzo di Tristano…), un incontro con damigelle accorate per la sorte della Ponzela Gaia (che risaliranno forse, attraverso chissà quali intermediari, al château de la Pesme Aventure dell’Yvain di Chrétien de Troyes), e l’incontro con una dama che, ancora per amore della Ponzela Gaia, teneva al suo servizio cento cavalieri con l’incarico di imprigionare tutti i cavalieri che incontrava, e che si innamora di Galvano quando questi sgomina tutti e cento i suoi avversari. L’episodio ricorda un’avventura del Lanzelet in cui la regina di Pluris ha promesso di sposare soltanto il cavaliere che riesca a battere in un giorno solo i suoi cento cavalieri (vv. 5444-5463). Ma nella seconda parte del cantare, soprattutto nell’assedio portato contro la città di Pelahorso, sembra di riconoscere un’intrusione di modalità del genere epico. La tendenza alla contaminazione con il concorrente genere delle chansons de geste, pur non estranea al romanzo cortese (Cligès, Partonopeus), si fa sempre più marcata nella letteratura italiana, e in particolare, appunto, in questo cantare, in cui la quête di Galvano si complica di assedi, battaglie campali, rese e tradimenti di castelli e città. La vittoria risolutiva avviene mediante lo stratagemma di un travestimento femminile delle forze assedianti. L’unico stratagemma simile che io conosca si trova in una chanson de geste del ciclo di Guillaume d’Orange, La Mort Aymeri de Narbonne, dove Aimeri riesce a rientrare in Narbonne, occupata dall’emiro Corsolt, quando fa vestire i suoi uomini da donne ed avverte l’emiro dell’arrivo della sua amica Clarissent. E il ciclo di Guillaume d’Orange era certamente ben noto nell’Italia settentrionale (Levi, Cantari leggendari, 3-10); di lì a poco, tra la fine Trecento e i primi decenni del Quattrocento, le varie chansons de geste del ciclo saranno toscanizzate proprio sulla base di versioni franco-italiane, nel vasto romanzo in prosa di Andrea da Barberino I Narbonesi. Il cantare ha inoltre la notevole particolarità di essere redatto in dialetto veneto, una patina linguistica pesante confermata in più casi dalle rime ma, come osserva Beatrice Barbiellini Amidei, ‘fortemente toscanizzato” (Ponzela Gaia, 12 e 46-50).
Il Ponzela Gaia appare quindi come il prodotto della rielaborazione di motivi sparsi, e variamente derivati dalla tradizione romanzesca, in un romanzo ‘nuovo’. Naturalmente non e’ mai sicuro se il ‘merito’ della ricomposizione vada attribuito all’autore del cantare o non piuttosto all’autore della sua fonte. Che il Ponzela Gaia facesse riferimento ad una narrazione preesistente ci è suggerito da un frammento in prosa toscana ritrovato nel ms. BNCF II IV 136, attribuito al sec. XIV, che riproduce l’episodio della liberazione della Gaia Donzella, e in cui si riconosce addirittura una coincidenza verbale precisa nella battuta con cui Galvano chiede alla fanciulla : “Che morte voli ch’io faccia fare a la fata Morgana?”, corrispondente al “che morte a la tua madre voi far fare?” del cantare (105.2). Ma la prosa toscana aggiunge un episodio che nel cantare non compare, ed è quindi difficile determinare quali relazioni possano essere intercorse fra il romanzo toscano e la versificazione in ottave (Barbiellini Amidei 2000, 27-29).
6. Carduino
Il cantare di Carduino è chiaramente imparentato col poemetto francese del Bel Inconnu (di Renaut de Beaujeu, o de Bâgé [Guerreau, 29-33], variamente datato ma in ogni caso non più tardo del 1230) e, quindi, con il corrispondente lay anglo-sassone Lybeaus Desconus, ma rimangono ignoti non solo gli intermediari ma persino la versione della storia che sta all’origine della tradizione confluita nel cantare italiano. La storia risulta dalla combinazione di motivi particolarmente produttivi nella letteratura romanzesca francese del periodo a cavallo fra XII e XIII secolo: la vicenda del ‘nice’ che, arrivato e dapprima beffato alla corte di Artù, si rivela poi uno dei più forti combattenti; una sequenza d’avventure che implica scontri con avversari progressivamente sempre più temibili – fra queste la liberazione di una fanciulla dalle voglie di due giganti – fino alla realizzazione di una ‘prova suprema’; l’incontro e il superamento degli incantesimi di una maga-amante; il bacio del serpente che libera dall’incantesimo una principessa (Fier Baiser); la vendetta sui nemici del padre.
Il motivo del nice soggiace alle figure di Perceval le Gallois del Conte du Graal, del lai de Tyolet, e del protagonista del poema tedesco Lanzelet. Vi sono notevoli somiglianze fra l’infanzia di Carduino e quella di Perceval, e nell’occasione che determina la decisione del giovane di andare alla corte di Artù (l’incontro con alcuni cavalieri provenienti da corte). Il seguito del racconto trova invece il suo riscontro più esteso nel poemetto cortese del Bel Inconnu: identiche sono l’occasione della partenza da corte per l’avventura, in una certa misura la progressione della quête, la prova difficile (si tratta di baciare una serpe mostruosa) e il risultato, che è il matrimonio con la principessa liberata dall’incantesimo. Lo stesso tipo di quête, sia pure con variazioni, si ritrova anche nella seconda parte dell’Ipomedon di Hue de Ruotelande (ca 1180) e nell’Erec di Chrétien de Troyes (con ‘prove supreme’ diverse). Carduino e Bel Inconnu differiscono invece in maniera importante nel trattamento del motivo dell’incontro con la maga-amante. Che dietro le due versioni ci sia lo stesso racconto è provato dalle coincidenze nelle allucinazioni provate da Carduino e Guinglain: nel momento in cui tenta di entrare nella camera della maga, il protagonista si trova ad essere sospeso sopra un’acqua ruggente in continuo pericolo di cadere giù e affogare. Ma nel Carduino l’avventura, incontrata nel viaggio di andata verso la Città Incantata, ha la durata di una sola notte, e l’episodio non ha alcuna ripercussione sul seguito della storia. Nel Bel Inconnu invece, com’è noto, l’avventura della Dame à l’Ille d’Or assume proporzioni tali da trasformare completamente l’andamento e il senso della storia che da racconto fiabesco diventa un sofisticato esercizio cortese sul tema dell’uomo fra due donne. E’ difficile credere che l’episodio così com’è raccontato nel Carduino derivi dalla versione del Bel Inconnu. Per certi versi, l’episodio della maga ricorda piuttosto un episodio del Lancelot di Chrétien de Troyes, che avviene anch’esso nel corso di una quête e rimane un episodio isolato. Lanciato alla ricerca di Ginevra, Lancelot è ospitato da una castellana che richiede però ai suoi ospiti di dormire con lei, come la duchessa di Carduino. Prima di andare a letto, Lancelot è fatto oggetto di una strana prova (deve difendere la damigella dall’assalto di temibili uomini armati), che può essere assimilata a un’allucinazione perché, non appena Lancelot ha la meglio sugli avversari, la signora del castello “Tot maintenant arriere envoie /les chevaliers et les sergenz; / lors s’en vont tuit cil de laienz /sanz arest et sanz contredit (vv. 1184-87). L’avventura dura una sola notte, dopodiché, quando Lancelot riprende il cammino, incontra e affronta un cavaliere che vuole sottrarre al protagonista la damigella in sua compagnia; guarda caso, ancora una volta come Carduino – episodio che non compare nel Bel Inconnu.
Insomma, le divergenze fra Carduino e Bel Inconnu sono di tale natura da giustificare il sospetto che il cantare italiano derivi non dal poema di Renaut de Bâgé ma da una narrazione parallela e coeva, se non antecedente. La notevole consonanza del nome Carduino con quello del fratello di Isotta dalle Bianche Mani Kaherdin (o Kaheddin), nel Roman de Tristan in versi di Thomas, potrebbe essere un ulteriore indizio che la storia risale al patrimonio narrativo celtico.
7. Bel Gherardino
A rigore, il Bel Gherardino non è un testo ‘arturiano’ perché non vi sono menzionati né Artù né alcuno dei cavalieri della sua corte, ma i parallelismi con poemi francesi che affondano le proprie radici nella tradizione narrativa ‘bretone’ ci induce a inserirlo in questa trattazione. La storia risulta dalla giustapposizione del fascinoso tema dell’amante soprannaturale (il primo cantare si chiude, giustamente, sulla perdita delle ricchezze e della donna) ad una quête di sapore un po’ più “realistico”, che prevede un imprigionamento dei cristiani da parte dei saraceni nel porto di Alessandria e un torneo a scopi matrimoniali. Nelle sue grandi linee la storia è molto simile a quella rispecchiata nel poema cortese anonimo Partonopeus de Blois (ante 1188), ma le differenze sono importanti e significative. Il Bel Gherardino ha uno svolgimento lineare, con la perdita delle ricchezze e della donna una sola volta, non appena rivelata la relazione, mentre Partonopeus tradisce la sua fidanzata due volte, e altrettante volte va avanti e indietro fra Costantipoli e la Francia (trovandosi tra l’altro impegnato in un intermezzo di stile epico, quando il giovane salva la monarchia francese da un’invasione di “saraceni danesi”). Il Partonopeus razionalizza il motivo dell’amante soprannaturale facendo della donna una principessa dello storico impero di Costantinopoli, sia pure versata nelle arti magiche; la prima parte del Bel Gherardino appare invece ancora impregnata della stessa atmosfera mitica che aveva generato i lais lanvaliani. Il protagonista cade infatti in povertà a causa della sua cortesia, come Lanval; trascorre un periodo beato all’interno di un castello meraviglioso, come Guingamor; nella disperata ricerca del bene perduto, si getta a nuoto in un corso d’acqua ed è salvato all’ultimo momento, come Graëlent. La Fata Bianca, sorella di serpente e di un orso, signora di un castello incantato, appare quindi come una figura intermedia fra la mitica amante di Laval e la principessa di Costantinopoli del Partonopeus. La proibizione torna ad essere quella di ‘manifestare’ la relazione, mentre il Partonopeus prende a prestito dalla favola di Amore e Psiche la proibizione di ‘vedere’ la donna.
Dopo il salvataggio da parte della sorella della donna amata, si innesta nel Bel Gherardino una versione della storia che, per quanto segua nelle sue grandi linee lo stesso svolgimento del Partonopeus, si rivela però più vicina ad una sequenza del poema anglonormanno Ipomedon. Infatti, prima del torneo Bel Gherardino intrattiene una relazione amorosa con la moglie del Sultano d’Alessandria, e passa un certo periodo di tempo alla sua corte, benvoluto da tutti, come Ipomedon che si fa chiamare il ‘dru la reine’ alla corte di Palermo; al torneo si presenta ogni giorno con una veste di colore diverso (verde, rossa e bianca), e, sempre come Ipomedon e al contrario di Partonopeus, alla fine di ogni giorno protegge accuratamente il suo anonimato. Anche i colori di cui Gherardino si veste al torneo possono dar luogo a qualche osservazione: fra i vari tornei ‘a più colori’ che si affacciano nei primi poemi cortesi, (Ipomedon, Lanzelet, Cligès), una concordanza stretta si verifica con il Lanzelet e il Cligès, in cui i colori sono gli stessi che nel Bel Gherardino, mentre il motivo è trasformato nel Partonopeus, dove il protagonista indossa sempre e soltanto armi bianche e il suo amico Gaudin armi rosse.
Mentre il Partonopeus ricostruito da Gildea prosegue la storia ben oltre il matrimonio, con un fallito tentativo di seduzione di Mélior, ormai moglie di Partonoepus, da parte di un corteggiatore secondo i canoni dell’amore cortese, il cantare si conclude invece con un triplice matrimonio: Bel Gherardino sposa la Fata Bianca, Marco Bello sposa la sorella della Fata, e la moglie del Sultano, rimasta vedova, viene data “ad un donzello / di gran legnaggio, cortese e saputo” (II 47.5-6). Anzi, il cantare italiano prepara il motivo del matrimonio plurimo raccontando l’innamoramento fra l’amico del Bel Gherardino, Marco Bello, e la sorella della fata in una graziosissima scena marina:
e, navicando, tanto fiso il mira,
ch’Amor nel cuor le ne mise una chiave;
sicché, parlando, per amor sospira.
E ragionando per lo mar soave,
la barchetta in una isola percosse,
sicché la dama tutta si riscosse. (II 12.3-8)
In conclusione, per quanto riguarda la storia, non solo le divergenze dal Partonopeus, ma la costante consonanza delle particolarità del Bel Gherardino con opere coeve al Partonopeus giustificano l’ipotesi che il cantare italiano risalga anch’esso non direttamente al poema cortese noto, ma ad una versione parallela e forse antecedente.
8. La Struzione della Tavola Ritonda
Dal punto di vista dell’inventario di temi e motivi narrativi, i cantari di cui non ci sono rimaste le fonti, come quelli trattati finora, sono forse i più interessanti, per i contributi che apportano al patrimonio dell’immaginario arturiano; ma anche i cantari che ripetono fonti note presentano notevoli motivi di interesse, soprattutto in quanto il confronto fra modello francese e rielaborazione italiana permette di meglio identificare le modalità della ré-écriture e le caratteristiche del genere. Una delle opere più notevoli è quella che trasforma in cantari il romanzo francese La mort le roi Artu (ca. 1230). Pubblicati da E. T. Griffiths nel 1924 col titolo Li Chantari di Lancellotto, i sette cantari del poemetto dovrebbero riprendere il titolo La Struzione della Tavola Ritonda, che è quello che compare nella prima ottava del primo cantare, e nell’explicit della trascrizione. Nonostante i francesismi presenti nel testo (in alcuni punti traduzioni letterali del testo francese), non mi sembra necessario ammettere che l’autore del cantare lavorasse direttamente su un testo francese, come ritengono Griffiths e Picone (Griffiths, 47-48, 53-54; Picone 2007, 274-75). Esempi paralleli (Palamidès, Tristan) dimostrano quando pedissequa potesse essere la resa in italiano degli originali francesi. E che esistessero volgarizzamenti della Mort le roi Artu è provato dal largo frammento trasmesso dal Panciatichiano 33, e dalla versione ebraica di un originale italiano datata addirittura 1279. E’ possibile insomma che il testo originale del romanzo avesse già subito qualche trasformazione prima di arrivare all’autore del cantare, ma, in mancanza degli anelli intermedi, il confronto lo si può condurre solo fra il poemetto italiano e il romanzo francese, restituito nell’edizione critica di Jean Frappier. La prima operazione dell’autore del cantare è stata quella di rendere “autonoma” la storia: la Mort Artu è, come si sa, l’ultimo romanzo del ciclo Lancelot-Graal e conserva nella situazione iniziale allusioni e agganci alle vicende che precedono la propria materia. I cantari aprono invece l’argomento presentando una certa situazione alla corte di Artù e introducendo addirittura Lancillotto come un personaggio non noto:
Regnando i’ re Artù in Camellotto,
aveva in suo corte un cavaliere,
chiamato era per nome Lancelotto;
consorti avea con se e buona gente,
che sempre intorno a llui facíen ridotto,
quand’egli stava in corte risedente;
costui de’ re la donna si teneva
e con carnale amor coּllei giaceva. (I 3)
Ma la trasformazione più importante è stata quella di conferire alla storia un senso unitario, che lega in un unico filo conduttore tutte le vicende: è l’adulterio di Lancillotto e Ginevra che causa la distruzione della Tavola Ritonda. La riorganizzazione narrativa della vicenda della Mort Artu è dettata dall’intenzione chiarissima di imprimere alla storia il senso di un racconto esemplare. La storia deve servire a dimostrare una tesi, chiaramente esplicitata all’inizio:
Com’è notorio a tutto quanto il mondo
i ma’ che già per femina so’ stati,
e come Troia ne fu messa in fondo,
e terre e gienti a morte consumati:
così simile i’ re Artù giocondo
con tutti i suo baron d’onor pregiati,
per la suo donna Ginevra reina
tutti morinno con crudel rovina. (I 2)
e alla fine del poemetto:
Oma’ vi vo’ pregar, cortese gente,
che nelle donne altrui non vi impacciate,
ch’asempro v’ò mostrato chiaramente,
il qual v’è specchio che ve ne guardiate;
e chi ha dama bella ed avenente,
guardila sì nel verno e nella state
ch’ella non facci malizie alcune,
sì come fé Ginevra a’ re Artune. (VII 51.)
La causa della ‘struzione’ della Tavola Ritonda è dunque individuata chiaramente nel ‘disordine’ dell’adulterio di Ginevra e Lancillotto, e la vicenda è esplicitamente assimilata alla tragedia della guerra di Troia provocata dall’adulterio di Paride ed Elena, classico esempio delle conseguenze deleterie di un amore adulterino. Ora, che questo sia il senso nascosto della Mort Artu e, anzi, di tutto il ciclo Lancelot-Graal, è elemento già fortemente evidenziato dalla critica. Ma nei romanzi francesi questo senso è ‘percepito’ più che spiegato, rimane sotterraneo, intermittente, nascosto nella pletora di tutti gli altri motivi del romanzo e addirittura, si potrebbe dire, dimenticato quando, risolto il problema di Ginevra per l’intervento dell’inviato papale, col ritorno della regina perdonata presso il re Artù e l’allontanamento di Lancillotto tornato nel suo regno, nelle ultime parti del romanzo Artù rimprovera a Galvano la sua inimicizia per Lancillotto e a questo attribuisce esplicitamente la desolazione del regno e la morte di tanti buoni cavalieri – colpa recepita e ammessa da Galvano stesso (“Biax niés, grant domage m’a fet vostre vilonnie…. Or avrai ge, si com ge cuit, soufrete des preudomes, et de vos et de ceus en cui ge me fioie plus au grant besoing”, cap. 165, p. 212). Nei Cantari invece il filo conduttore dell’adulterio rimane scoperto lungo tutto il racconto, evidenziato da riferimenti diretti e indiretti (II 1.6-8, II 44.4-6, IV 2.8-3.2, V 1.4-8), anche se poi il moralismo implicito nelle frasi extradiegetiche non è affato calcato nella descrizione della relazione amorosa. Anzi, nonostante la forte compendiosità del dettato rispetto alla stesura del romanzo, i cantari aggiungono dei tratti narrativi relativi alla storia d’amore di Ginevra e Lancillotto che mettono in rilievo l’amore dei protagonisti e non la sua condanna. Così, quando Lancillotto e Ginevra si rifugiano al castello della Gioiosa Guardia, il poemetto insiste a più riprese sulla felice situazione dei due amanti:
Molto fu grande il sollazzo e le risa
Che Lancelotto fé con esso quella
Che asembrava istella paradisa –
Tant’era savia e graziosa e bella;
ecc. (III 38; ma si vedano anche IV 23 e IV 40. 5-8)
I cantari insistono anche sul dolore degli amanti per la separazione indotta dalla mediazione papale (cfr. IV 46.1-5; 48.1-5; 49.6-8); e ancora alla fine, quando Lancillotto tornato in Gran Bretagna “per la reina” (VII 1.4) viene a sapere non solo che Ginevra è morta, ma anche che era diventata “badessa santa” facendo aspra penitenza del suo peccato, Lancillotto innalza a Dio una preghiera profondamente sentita per la salvezza dell’anima di Ginevra (VII 8-10), prima di decidersi a diventare lui stesso eremita (VII 37.8). Si direbbe insomma che, nonostante l’intenzione moralistica, l’estensore dei cantari si sia poi lasciato prender la mano dal piacere di descrivere una relazione amorosa (Boccaccio docet).
Rispetto alla distesa narrazione del romanzo, i cantari presentano un racconto molto più compatto: gli episodi si succedono l’uno all’altro senza pause, solidamente collegati fra di loro da esplici rapporti di causa a effetto. Per esempio, Artù indice il torneo di Vincestri non per rilanciare l’esercizio cavalleresco e rifornire le file della Tavola Rotonda, privata di tanti suoi cavalieri nel corso della ricerca del Graal, ma per mettere alla prova le relazioni fra Lancillotto e la regina; Lancillotto va al torneo in incognito non per il timore che nessuno voglia misurarsi con lui, se viene riconosciuto, ma perché nei giorni precedenti Artù gli ha mostrato un aspetto turbato, e Lancillotto teme che Artù abbia scoperto la sua relazione con la regina; un po’ più tardi, quando la regina provoca inavvertitamente la morte di un cavaliere della Tavola Rotonda, il fratello Amador della Porta viene a corte perché avvertito della morte del fratello…. Gli episodi secondari sono abbreviati, come tutto il segmento narrativo relativo al soggiorno di Lancillotto nel castello d’Ascalot: gli intrattenimenti di Lancillotto e della damigella d’Ascalot si riducono a un solo incontro, in cui la richiesta di portare la sua manica appare come un ripiego della damigella, dopo che Lancillotto ha rifiutato di dormire con lei. È cioè narrato dell’episodio solo quel tanto che può spiegare lo sdegno della regina e offrire così la causa dello svolgimento della vicenda. Altri episodi sono completamente omessi, ma le allusioni che vi sono fatte nel testo del cantare rivelano che l’omissione è frutto di una scelta deliberata, ad esempio le conversazioni di Bordo con la regina. I soli momenti sui quali il narratore sembra indugiare sono le descrizioni dei duelli e delle battaglie, che sono narrate con rara vivacità: fatto notevole se si pensa alla frequenza di duelli e battaglie nelle narrazioni cavalleresche, che spesso scadono nell’uso di luoghi comuni e trite espressioni.
Naturalmente siamo di fronte a una semplificazione drastica dei valori dell’originale. In particolare sono sacrificati tutti quei sentimenti e valori del romanzo che, sia pure idealizzandoli, facevano comunque allusione a situazioni e modi di sentire concretamente incarnati nei rapporti feudali della società contemporanea. L’ultima parte della storia è determinata, come nel romanzo, dall’ansia di vendetta di Galvano; ma nel romanzo l’accento è posto sui conflitti interiori dei personaggi, divisi fra sentimenti contrastanti: amore, rispetto, devozione, lealtà nei confronti del suo signore da parte di Lancillotto, costretto a difendersi dal suo assalto; amore e ammirazione per Lancillotto da parte di Artù, costretto a combatterlo per l’amore che porta al nipote Galvano; e perfino Galvano, una volta che Lancillotto lo ha costreto a levare l’assedio e tornare in Bretagna, sembra riconciliarsi interiormente con Lancillotto, e a più riprese consiglia ad Artù, messo in pericolo questa volta dalla ribellione di Mordarette, di chiedere aiuto a Lancillotto. Artù non accetta perché non ha il coraggio di chiedere aiuto a un vassallo al quale egli stesso ha fatto tanto male, e va incontro, quasi consapevolmente, al suo destino tragico. Nei cantari, nessuna traccia di queste ‘complicazioni’ psicologiche. L’inimicizia di Artù per Lancillotto non si spegne mai, ed è per questo che Artù non accetta di chiedergli aiuto:
e’ re ch’avíe ’nver lui l’animo duro
sì gli rispuose con vista crucciata:
“Di ma’ rendegli pace non mi curo
e ma’ non vo’ che ssia di mia brigata.” (VI 18.3-6)
piangeva e ricordava Camellotto
e maladice sempre Lancelotto. (VI 44.7-8)
Il racconto è quindi condotto in maniera assolutamente coerente lungo la falsariga del disegno esemplare che il rielaboratore si è prefisso. Picone parla giustamente di ‘arte del levare’ (Picone 2007, 265); è importante riconoscere anche che la sintesi non avviene soltanto per concentrare l’attenzione sui momenti epici, per il gusto pittoresco di descrivere grandi colpi, ma proprio per mettere in rilievo e anzi esaltare il filo conduttore delle tragedie causate dall’amore per una donna, secondo il tradizionale topos misogino ‘chi dice donna dice danno’.
9. I Cantari di Febus-el-Forte
Caratteri analoghi presentano i sei Cantari di Febus-el-Forte, ruotanti anch’essi intorno a una storia d’amore, che ripropongono una sequenza stralciata dal Roman di Palamedès, a partire probabilmente da una redazione italiana in prosa (Limentani, Introduzione, XVIII). Anche i Cantari rendono la storia autonoma rispetto al romanzo nel quale era originariamente inserita; il racconto è, più che compendiato, sfrondato di tutto ciò che non è funzionale all’argomento principale, e vengono omesse in particolare le descrizioni psicologiche, le riflessioni interiori, al massimo riversate in esternazioni verbali, in battute di dialogo. Ma più che la trasformazione del ritmo del racconto, quello che importa è lo spostamento del centro dell’attenzione, del ‘messaggio’ trasmesso dai due testi: nel romanzo, il senso del racconto sta nell’esaltazione del valore di una generazione passata, quella del padre di Artù Uterpendragon, rappresentata come infinitamente più forte e più cortese di quella contemporanea; l’accento è posto da una parte sulla forza morale della cavalleria (“Segnour – dist il, – quant vos veés que fortune est tele come ele vous a ici moustré, ne pensés jamais nul jor a mavaistié ne a couhardie: li chevalier qui a paour, pour nule aventure del monde ne se devroit par raison tenir por chevalier…” parte II, cap. XL, p. 94), dall’altra sul valore ispirato dall’amore: “Ge fis pour Amour tes merveilles que mortex home ne fera teles” (parte II, cap. III, p. 44); “et en cele bataille meesmes qu’il avoit le le jor [devant] complie, s’estoit il bien prouvés … por amor de la damoisele, car bien savoit certainement qu’il ne porroit estre que les nouveles n’alassent a la damoisele des grant feis qu’il feroit illuec.” (parte II, cap. XLII, p. 92). Nella migliore tradizione dell’amore cortese, Febus è innamorato della fanciulla perché ha sentito parlare della sua grande bellezza: “et, pour la grant biauté qu’il en avoit oï conter, li voloit trop grant bien et l’amoit de tout son cuer, ne onques ne l’avoit veüe” (parte II, cap. XLII, p. 92).
Nel cantare tutto l’interesse si concentra invece nell’esaltazione delle gesta di un eroe eccezionale per la sua forza: “sì che piaccia l’udire a tutti quanti / degli ardimenti suoi, che fuor cotanti.” (I 1.7-8); “perché di Febus omai farò (la) stima / e suoi gran fatti io vi dirò per rima” (I 24.7-8); “e canterovi nel cantar secondo / le gran prodezze del baron giocondo” (I 56.7-8; e anche I 41.2-3, III 64.3-4). Il fatto che queste grandi prodezze siano state fatte per amore non soltanto rimane in subordine ma nel cantare l’amore appare addirittura come la tragica debolezza che fra tutte le perfezioni inficia l’integrità dell’eroe e lo conduce alla morte: “una sola viltà mi partì el core / e del mio grande ardir passò le porte: / ciò fu Amore, per cui mi diei a servire / una pulzella che mi fé morire” (I 27.5-8); “e così mi diè morte Amor fallace / per quella che di là nel letto giace” (I 28.7-8).
Il canterino è singolarmente a disagio con il linguaggio dell’amore cortese, che rifletteva evidentemente interessi non più sentiti. Gli episodi che mettono in scena personaggi femminili sono conservati, e anzi elaborati, ma il linguaggio, anziché seguire la falsariga del romanzo, utilizza espressioni che riflettono la tradizione canterina (p. es. Bel Gherardino). Sparita ugualmente l’atmosfera di alta cortesia, il senso di ciò che conviene a decoro e a onore, che sono così forti nel romanzo. L’innamoramento di Febus è trattato, nel cantare, in modo meccanico e immotivato: trovatosi davanti alla figlia del re di Norgales che veniva a recuperare i corpi del padre e dello zio, Febus le dichiara immediatamente il suo amore: “Donzella, contro a te non ho argomento /… pognàm che Amore mi doni gran tormento / guatando fisso tua gentil figura” (III 11.1-4); ma subito dopo qualcuno gli parla della cugina della damigella, molto più bella di lei e subito Febus “deliberò la sua cugina bella, / inamorò di lei senza vederla” (III 14.7-8). Impossibile determinare se le differenze fra il cantare e il romanzo siano senz’altro attribuibili al canterino o a un ipotetico precedente volgarizzamento-compendio. Non c’è dubbio comunque che anche in questo cantare, che pure deriva direttamente da un romanzo, si verifica il fenomeno di “semplificazione” e di “adattamento consumistico” della materia arturiana quale è stato identificato e denunciato da Michelangelo Picone (Picone 1984, 101-102). E tuttavia bisogna ammettere che, nonostante l’innegabile povertà del linguaggio, l’arte di narrare raggiunge nel Febus-el-Forte una notevole efficacia. Il racconto è serrato; ogni cosa è descritta in modo da suscitare ‘meraviglia’ e in maniera viva. Gli episodi sono spesso giustapposti in modo da far risaltare l’evento paradossale e sorprendente, come quando Febus si vanta del proprio valore e l’eremita gli dimostra di essere più forte di lui (II 11); o i tre re si beffano dei quaranta cavalieri di Febus, e proprio in quel momento “A tanto gionse un messo che un castello / per forza preso avea el barone adorno / e avia morto il grande e ‘l picolello” (II 30); o lo sbigottimento dei quaranta compagni di Febus quando vengono a sapere che devono affrontare un esercito di quindicimila nemici (II 34); o quando il re nel bel mezzo della festa si prepara “per gire a disinare, ed ecco in quella // subitamente gionse in fra di loro / un cavaliere” che lo minaccia (III 56.8-57-2). Le scene di battaglia, che sono spesso ‘escamotées’ nel romanzo (“Que vous feroie jou lonc conte?”: parte II, cap. XXXVII, p. 90) vengono invece allargate per disegnare una figura epica di dimensioni più grandi del naturale:
Poi, or qua or là corendo, l’oste abocca,
in su le staffe combattendo ritto;
gli uomini, l’arme fende quanto intoppa,
assai n’ucide, com’io truovo scritto,
e paria a vedere un muro di rocca,
tant’era sul destrier forte confitto;
e chi feria le sue arme forte
non riparava d’angosciosa morte. (II 50)
I Cantari di Febus-el-Forte appaiono così rappresentanti esemplari di una caratteristica che Vittore Branca riconosceva come la più specifica del genere cantare, l’esaltazione di “quel registro del meraviglioso sul quale agevolemnte s’intonano le varie note e si concertano i diversi motivi dei più felici cantari del nostro Trecento… gli elementi fantastici (e quindi stilistici e linguistici) che operano in senso positivo nei cantari puntano infatti risolutamente al meraviglioso e al fiabesco” (Vittore Branca,108, 99).
10. Ultime imprese e morte di Tristano e Vendetta di Tristano
Ancora più drastica è stata l’estrapolazione di particolari episodi dal contesto romanzesco nel caso della saga tristaniana. Ci rimangono infatti solo pochi cantari derivati dalle redazioni italiane del Roman de Tristan, tutti concentrati sugli episodi che circondano il momento culminante della storia, e il più patetico, la morte di Tristano. Di questi cantari ci restano più copie, caso rarissimo, certo a causa della popolarità e della pateticità dell’argomento. Rispetto al resto delle narrazioni tristaniane, la versione in ottave introduce poi un Cantare della Vendetta, che trova un certo riscontro soltanto nell’ultima parte del Tristano veneto, un testo copiato nel 1487 (BN Vienna 3325), ma risalente apparentemente a un modello anteriore di un secolo. Anche per quanto riguarda le ‘ultime imprese’, del resto, vi sono discrepanze importanti rispetto alla versione Vulgata: manca completamente l’episodio del gigante Lucanor (Cigni, 143); il nome del traditore che va a chiamare re Marco è Alibruno – apax nella tradizione tristaniana -, e la lancia con la quale Marco ferisce Tristano è la lancia stessa di Tristano che egli ha lasciato casualmente dietro la porta della stanza d’Isotta (Bertoni 1927, 250-54).
Più che segnalare nei dettagli le divergenze di contenuto, mi sembra però interessante fare qualche osservazione sulla forma che il racconto assume nella sua ‘traduzione’ in ottave. Nel passaggio infatti dal fluire continuo della prosa, tutt’al più pausato dalla divisione in capitoli, ad una forma che prevede una ritmica scansione in ottave, la narrazione stessa assume una configurazione particolare. L’ottava è un organismo metricamente e sintatticamente in sé concluso: per ‘narrare in ottave’, il narratore deve scomporre il racconto in tante brevi unità ciascuna relativamente autosufficiente, o piuttosto – vista la destinazione performativa – in tante piccole scene. Al ‘filo’ continuo del racconto va quindi sostituita una ‘catena’ fatta di tanti anelli chiusi – che rimandano poi alla necessità di collegare un’ottava all’altra.
E infatti, dopo le prime ottave di carattere riassuntivo, che danno uno scorcio degli avvenimenti per situare l’episodio nel contesto della storia (ottave 2-6) il racconto è suddiviso in tante piccole scene, ciascuna con una sua organicità conclusa: spesso le ottave iniziano con una proposizione secondaria che, creando l’attesa per la frase principale, sposta l’attenzione verso il centro dell’ottava, mentre il distico, rilevato dalla rima baciata, si presta perfettamente a riassumere il senso dell’unità narrativa. Per esempio:
Isceso alla fonte Tristano da cavallo,
per posarsi pensando di su’ amanza,
e’ appiccò lo scudo sanza fallo
al verde pino, e appoggiò la lanza.
Al destrier cavò ’l freno, lasciò andallo
pascendo il prato, sì come era usanza;
tràssesi l’elmo e risciacquossi il viso,
e ffu sopr’a’ pensieri d’Isotta fiso. (ottava 13)
Alternativamente, e anzi ancora più spesso, il verso finale risponde invece all’esigenza di stabilire la continuità con il seguito del racconto, e lancia un aggancio verso il contenuto dell’ottava successiva:
Così andando preso per viaggio,
scontrossi in Chieso e Dodinel Selvaggio.
……………………………………………………….
Con bel saluto innanzi gli si mostra;
cortesemente gli domanda giostra. (ottave 7-8)
A questa configurazione ritmica corrisponde la collocazione delle battute molto spesso alla fine dell’ottava; o in modo da distribuire equamente fra un’ottava e l’altra il dialogo fra degli interlocutori. Si vedano in particolare, a questo proposito, le ottave immediatamente successive al ferimento di Tristano (69 sgg.). Particolarmente sensibile in questo cantare la tendenza alla ‘teatralizzazione’, a riversare cioè in battute quelli che il romanzo descriveva come sentimenti o pensieri, o anche come battute dei protagonisti ma esponendole in discorso indiretto, come si vede dal confronto fra la versione in prosa conservata dal ms Panciatichinao 33 e il cantare:
Panciatichiano: Quando messer Tristano si sente fedito, elli conobbe inmantenente ch’elli era fedito mortalmente. (par. 524)
Cantare: Quando Tristano si sentì ferito
alla reina cominciò a ddire:
“Gentil madonna, i’ sono a tal partito,
da vvoi per forza mi convien partire: (66.1-4)
Panciatichiano: E disse ch’elli era morto in tutto, senza fallo e questo colpo li derà la morte senza grande dimoro. (par. 524)
Cantare: posesi in sul letto e cominciò a gridare:
“O me dolente, o lasso sventurato!
Or ben son morto e non posso campare
Che llo re Marco m’à sì innaverato
Ch’altri che Iddio non mi potre’ atare!” (67.2-6)
Così la gioia di re Marco alla notizia che Tristano è ferito a morte si rivela nel suo dialogo con la regina (ottava 69), e il successivo ripensamento sulla difesa del regno che, morto Tristano, veniva a mancare, è dovuto ad una battuta di Isotta, anziché a una resipiscenza del re stesso (ottave 70-71). Il discorso diretto rende evidentemente con maggior immediatezza l’emozione da trasmettere, e fa più presa sul pubblico, ma serve anche comunicare col minor numero di parole il maggior numero possibile di informazioni nel breve giro dell’ottava. E’ lo schema ritmico della successione di ottave che determina la strutturazione del racconto. La forma poetica riveste quindi un ruolo preponderante nel processo di configurazione del contenuto da trasmettere. Si ricorderà la celebre espressione del Foscolo che, osservando una volta i cavalloni che si succedevano su una spiaggia di Normandia esclamò “Così vien poetando l’Ariosto!”, per sottolineare appunto l’ incessante rigenerarsi dell’ottava ariostesca. Ed è certo vero, ma l’Ariosto aveva alle sue spalle tutta una tradizione di composizioni in ottave, che per un secolo e mezzo aveva sperimentato e progressivamente scoperto le possibilità di questa struttura ritmica, rendendola funzionale a tutte le sue esigenze di comunicazione. Non a caso l’ottava è il metro principe della poesia narrativa italiana.
11. Il Duello al Petrone di Merlino
Il duello ‘per errore’ fra Lancillotto e Tristano presso il ‘petrone di Merlino’ era un episodio di notevole rilievo nel Roman de Tristan, perché era l’occasione in cui Lancelot convinceva Tristano a recarsi con lui alla corte di Artù, era quindi il momento di sutura fra la saga tristaniana e quella arturiana (D. Delcorno Branca, 180). L’episodio passò dal Roman de Tristan al Romanzo arturiano di Rustichello da Pisa: una strana compilazione, composta in francese fra il 1272 e il 1274, che combina larghi tratti del Roman de Palamidès (nella parte che fu anche intitolata Guiron le Courtois) con larghi tratti del Roman de Tristan e del Lancelot in prosa. Il duello del nostro cantare appare derivata dalla versione del Romanzo arturiano, presumibilmente in un volgarizzamento italiano, e non da altre opere tristaniane.
Si è discusso se il Duello al Petrone di Merlino fosse un cantare isolato o facesse parte di un’opera in più cantari sulla falsariga di una versione italiana del romanzo di Tristano (si ricordi l’allusione al duello all’inizio del cantare di Lasancis). Nonostante le allusioni ad altri episodi e a personaggi della letteratura arturiana all’interno del cantare, in realtà il Duello appare come una composizione a sé stante. L’introduzione annuncia che il cantare tratterà dei cavalieri del re Artù, evidentemente già noti al pubblico, anzi dei migliori di questi, Lancillotto e Tristano. Notevole l’apertura ‘primaverile’, che collega il cantare alla tradizione della poesia cortese (la forma Artura, sconosciuta al resto della tradizione testimonia della sciatteria del linguaggio):
Nel tempo che fioriscon le ramelle,
ch’e franchi cavalier della ventura,
coperti d’arme in su destier con selle,
e’ ciercan giostre per ogni pianura,
e io son qui per dirvene novelle,
pur de’ miglior, di que’ de∙re Artura:
vo’ dir Tristano e Lancelotto ardito,
come al petron Merlin e’ fu fedito. (ottava 2)
L’ultima ottava conclude rapidamente il cantare riunendo in una sola strofa la fine dell’episodio (abbraccio di Tristano e Lancillotto), l’epilogo della vicenda (cure al castello di Dinasso e rappacificazione con Palamides), e l’epilogo del cantare, in un solo verso (“Dio ci conduchi alla grolia infinita”, 42.8), senza alludere all’andata di Tristano alla corte di Artù. Nel Romanzo arturiano la conclusione dell’episodio è diversa, e non si parla della rappacificazione con Palamidès. La versione del cantare chiude invece la vicenda in una maniera appropriata alla conclusione di un racconto breve, come un cantare. Il Duello poteva quindi essere recitato isolatamente, senza far parte di un poema a più canti, come il Febus.
Alcune altre discrepanze minori fra la versione del Romanzo arturiano e il cantare sono spiegabili come elaborazione da parte del canterino e sembrano dovute all’esigenza di rendere più efficace la comunicazione. I cavalieri si scambiano battute prima di incominciare a duellare e i colpi di spada sono costantemente intervallati da allocuzioni dell’uno all’altro, sia pure per esprimere soltanto il proprio odio e le proprie minacce.
La rivelazione della reciproca identità fra Tristano e Lancillotto è più volte sfiorata ed elusa, con un buon effetto drammatico: Lancillotto propone infatti una prima volta all’avversario di dirgli il suo nome, ma Tristano rifiuta:
Dicea Tristano: “Io il ti farò sapere,
se no l’ sai bene, pur colla mie spada.
Or te ne spaccia, falso cavaliere,
ritorniamo al zimbel, che ciò m’a‹g›grada… (32.1-4)
La rivelazione dell’identità dell’avversario è rinviata il più a lungo possibile mediante un chiaro artificio retorico: mentre nel duello fra Palamidès e Tristano, infatti, la regina Isotta è menzionata più volte per nome, nel duello con Lancillotto Tristano menziona ogni tanto ‘la regina’, ma non chiama Isotta per nome, ingenerando così l’equivoco che si tratti di Ginevra:
E sì dicea: “Togli pe∙lla reina,
ch’og‹g›i per lei tuo vita fie tapina.”
E Lancelotto, udendo così dire,
(pe∙llo gran colpo a Dio si rac‹c›omanda)
rispuose: “Per suo amore i’ vo’ morire.”(29.7-30.3)
E’ soltanto quando Tristano, imbaldanzito da una sua possibile superiorità sull’avversario menziona finalmente Isotta (“O cavalier, tue forze son mancate: / og‹g›imai non ti curo una medaglia, / che io vegio ben che Isotta non amate.”) che Lancillotto si trae indietro, chiede una tregua, propone di nuovo lo scambio dei nomi, e il riconoscimento avviene, ancora una volta teatralmente, quando Lancillotto si toglie l’elmo. Le passioni insomma dei protagonisti sono esagerate e rivelate senza alcuna mediazione, magari anche in modo plebeo; ma questa teatralizzazione è chiaramente una funzione della comunicazione orale, e può essere identificata come una caratteristica del genere cantare.
12. Bruto di Bretagna
Composto di sole 46 ottave, il Bruto di Bretagna è uno dei più brevi cantari conosciuti, e uno dei pochi di cui si conosca l’autore, il banditore del comune fiorentino Antonio Pucci (1310c.-1388). Anche la fonte del poemetto è sicura, ed è singolare nella misura in cui non si tratta di un’opera romanzesca ma di un trattato sulle regole e convenzioni dell’amore cortese, il celebre De amore di Andrea Cappellano. Il cantare costituisce anzi una prova indiretta della penetrazione in Italia dell’opera del Cappellano, di cui ci rimangono solo volgarizzamenti coevi e forse più tardi del cantare. Nel secondo libro dell’opera, il Cappellano introduce la questione delle ‘regole d’amore’, e le dice riportate da un cavaliere bretone dalla mitica corte di Artù. La conclusione vittoriosa della quête del cavaliere è gravida di conseguenze per tutti gli amanti perché le regole d’amore saranno rivelate a “numerous ladies and knights”, e “The full assembly of the whole court accepted them, and promised to keep them forever, under threat of Love’s punishment.” Evidentemente l’importanza che a queste regole è attribuita dal testo latino è strettamente funzionale alla tematica dell’amore cortese, che non è soltanto l’argomento centrale del trattato ma anche un interesse fortemente sentito nell’ambiente aristocratico ed esclusivo per il quale era stato scritto e al quale si rivolgeva il De amore.
Nel cantare l’ambientazione cortese del racconto di Andreas Capellanus è, sì, esplicitato e condensato nel dialogo fra l’amante e la donna della situazione iniziale (implicita ma inesistente nel racconto del De amore):
e, non possendo più sofrir tal peso,
richiesela d’amor celatamente,
dicendo : I’ son per far vostro disio
in ogni caso, se voi fate il mio.
[….]
el non fia cosa ch’io per voi non faccia,
e sia ad aquistar, quanto vuol, forte,
ch’i’ non mi metta, per averla, a morte. (3.7-4.8);
ma, come nei cantari che ricavano episodi dai romanzi ‘di lunga durata’, il racconto è completamente stralciato dal suo contesto: il cantare non incorpora né l’elenco delle regole né l’epilogo, e il racconto finisce subito dopo che l’eroe ha concluso vittoriosamente la sua quête e si rimette in cammino per tornare dalla sua ‘donna verace’. La ‘carta de le regole d’amore’(5.6) è menzionata senza nessuna insistenza, semplicemente come uno degli oggetti da riportare alla donna per ottenere il suo amore. L’attenzione è così spostata tutta ed esclusivamente sull’interesse narrativo e romanzesco della storia.
Anche in questo caso, pur nella costante fedeltà allo schema narrativo del modello, la rielaborazione del Pucci imprime al racconto un notevole mutamento di senso. Salta all’occhio prima di tutto il fatto che il cavaliere, innominato nel De amore, è diventato qui Bruto di Bretagna, probabilmente a causa di un equivoco ‘culturale’: nel testo latino, infatti, il cavaliere, innominato, è indicato con un appellativo che indica la sua nazionalità: ‘Brito’, o ‘miles Britanniae”, cioè bretone. E’ possibile che un volgarizzatore italiano abbia interpretato il termine come nome proprio e lo abbia trasformato in un nome certamente più familiare a un orecchio italiano, quello del celebre figlio di Cesare, Bruto, da qualificare però allora come ‘di Bretagna’ (o Bertagna secondo la metatesi pucciana, 2.7).
Il confronto dei procedimenti narrativi rivela altre importanti differenze: mentre nell’originale latino la comunicazione al lettore dello scopo per cui il cavaliere cercava il re Artù si scopre soltanto nel colloquio fra il cavaliere e la misteriosa fanciulla trovata nella foresta, secondo un procedimento di “ritardamento” e svelamento progressivo tipico del romanzo arturiano, il Pucci esplicita la missione del cavaliere fin dall’inizio nel dialogo fra lui e la donna di cui egli cerca l’amore. Agli ascoltatori/lettori del cantare tutto è chiaro in partenza: il nome del protagonista, il suo corteggiamento alla donna, la condizione posta da lei per concedergli il suo amore, la sua partenza per la quête. Il procedimento per cui un racconto incomincia in medias res e rivela poi a poco a poco l’antefatto e le ragioni della situazione iniziale richiede un’intensa attenzione al racconto e quasi un’intimità fra narratore e ascoltatori incuriositi e pazienti. La presentazione immediata della situazione iniziale appare invece funzionale ad una comunicazione orale davanti ad un pubblico più generico e più distratto, in una situazione più fluida come quella della recitazione giullaresca.
Ma più importanti sono le differenze, per esempio, nel modo di immaginare il mondo arturiano. Nel racconto del De amore, il regno di Artù ha chiare connotazioni da Oltremondo. Intanto è lontanissimo dalla Britannia; per arrivarci, l’eroe deve oltrepassare un fiume, su un ponte tanto basso “that the middle of it lay underwater, appearing to have become submerged by the quite frequent buffeting of storms.” È lo stesso fiume e lo stesso ponte che Galvano deve attraversare per rendersi al paese di Gorre dove Méléagant tiene prigioniera la regina Ginevra (nel Chevalier de la Charrete di Chrétien de Troyes), e quello che lo stesso Gauvain attraversa per andare a cercare il freno della mula nel poemetto della Damoisele à la mule; è il fiume dove Graëlent rischia di annegare (Lai de Graëlent); è insomma la grande acqua che nella mitologia celtica separa il mondo dei vivi dal mondo dell’aldilà. Non per niente, una volta attraversato il ponte, l’eroe si trova in un paesaggio paradisiaco: “Then the Briton began to ride through most beautiful meadows, … he entered a pleasant pasture fragrant with all kind of flowers.” Vi si trova naturalmente un palazzo rotondo senza porte visibili, vi appaiono mense imbandite, misteriosi lamenti si alzano quando l’eroe, vinto l’avversario, si impadronisce del guanto.
Nel Bruto di Bretagna gli elementi meravigliosi sono conservati, ma il carattere mitico del racconto eziologico non è più in primo piano. Come osserva Margherita Lecco, “l’articolato scenario della corte arturiana, vero regno d’Oltremondo, riduce presenze e simbologie. Lo sparviero, segno della difficile conquista d’amore, i cani che custodiscono la virtù d’amore, connessi alla nobile apparizione della chartula amoris, …. vengono ricondotti alla sostanza di oggetti magici, comparendo sin dalle iniziali pretese dell’amata di Bruto, nella consueta triplicazione di rigore per gli oggetti magici della fiaba… la perdita è a carico dell’ideologia e della poetica cortese… [Anche la juvencula,] “con l’apparire in Bruto di Bretagna come spinta da una casualità non legata al riconoscimento delle qualità del cavaliere, ed assumendo funzione di aiutante (più che di mistagoga), viene, se così si può dire, ‘declassata’ a fata, cioè a personaggio di un altro genere…” (Lecco 2004, 553) Il cantare italiano riduce insomma gli elementi simbolici a effetti del meraviglioso e traduce la miticità del racconto nei caratteri della fiaba.
Il cantare italiano sposta dunque l’attenzione dalla trasmissione di valori che è l’obiettivo del De amore al puro amore per il racconto d’intrattenimento, recuperando modalità della fiaba popolare e andando così incontro a una nuova sensibilità cittadina e borghese che delle leggende arturiane recepiva soprattutto la valenza dell’esaltazione di eroi senza difetto vivi in ambienti ‘meravigliosi’.
Da questa pur rapida rassegna dei cantari arturiani si possono dunque ricavare alcune delle modalità costanti della riscrittura canterina del grande romanzo cortese: adattamento della narrrazione a una forma di comunicazione rivolta al grande pubblico, interesse centrato sul racconto in quanto tale, ‘declassamento’ dei valori simbolici e allusivi ridotti a puri elementi del meraviglioso, slittamento verso i toni, e anzi adozione di strutture e motivi propri della fiaba. In termini generali, il cantare sfronda le narrazioni originali da tutti quegli elementi che ne rivelavano il radicamento nei valori di una particolare classe sociale in un particolare momento storico. Le vicende, ridotte all’espressione di valori più elementari, come l’esaltazione dell’eccellenza guerriera o la diffidenza nei confronti della pur ineludibile esperienza amorosa, diventano in qualche modo atemporali e come tali trasmissibili attraverso le epoche e le culture (come le fiabe). Allo stesso tempo si precisa e si raffina un’arte del narrare che trova nella rapidità e nella compattezza degli episodi succedentisi gli uni agli altri ulteriori ragioni della sua capacità di penetrazione e del suo successo in larghi strati della popolazione, e fa pensare alla contemporanea evoluzione della narrativa in prosa verso la novella. Le soluzioni metriche e stilistiche della comunicazione per ottave costituiscono poi il ricco retroterra dal quale fioriranno i grandi poemi epico-cavallereschi del Rinascimento.
Infine, la dipendenza dei cantari da fonti scritte, chiaramente riconoscibile quando queste siano state conservate, ed estendibile per analogia anche agli altri cantari, permette di qualificare e precisare il ‘mito’ della letteratura orale che a lungo è stato associato a questa produzione. In realtà appare molto probabile che il testo di un cantare parta dalla versificazione di un versione prosastica, e che la pratica poi della recitazione canterina introduca progressivamente modifiche di vario tipo in funzione di una sempre maggiore efficacia della comunicazione orale. Un processo che è possibile illustrare attraverso uno studio attento rapporti fra il testo dei cantari e quello delle fonti (nei pochi casi in cui rimangano contemporaneamente la fonte e più copie di un cantare), e poi dei rapporti fra il testo e la ritmica dei cantari.
Nel corso del Quattrocento la materia arturiana continua ad essere trattata e rielaborata, ma scadendo in prodotti di carattere sempre più trito e convenzionale, e presumibilmente per un pubblico sempre più popolare: un esempio eloquente se ne può trovare nel frammento di Galasso della Scura Valle, in cui si fa ricorso al prestigio del nome arturiano solo per riproporre stancamente il motivo della fanciulla perseguitata da cavalieri violenti e lussuriosi salvata da un buon eremita combattente. I tre cantari del Libro de Battaglie de Tristano e Lancelotto e Ghalaso e dela raina Isota, stampato a Cremona nel 1492, narrano come Tristano, derubato di armi e cavallo, uccida dei giganti e in seguito, assediato in un castello, sia liberato da Galasso e Lancillotto (D. Delcorno Branca 1998, 214 n.34). Il cantare di Gibello potrebbe anche risalire ad uno spunto narrativo di origine bretone (la situazione iniziale trova una corrispondenza nel lai du Freisne di Marie de France), ma si svolge poi lungo linee talmente lontane dai motivi di questa narrativa da non poter essere considerato né arturiano né bretone. Altri poemi in ottave di materia arturiana, più tardi, allungano la narrazione di episodi celebri della tradizione senza alcuna freschezza d’invenzione né di dettato. Per esempio, l’ Innamoramento de Galvano, poema in 13 cantari del frate Evangelista Fossa, scritto a Venezia fra il 1494 e il 1497, rielabora la vicenda narrata nel cantare della Ponzela Gaia e la combina con la vicenda dell’Astore e Morgana; e Niccolò degli Agostini (autore di una delle continuazioni dell’Orlando Innamorato) scrisse un Innamoramento di messer Tristano (Venezia, 1520) e un Innamoramento di Lancilotto e di Ginevra, (continuato da Marco Guazzo,1521-26). Ma i titoli stessi di queste opere rivelano come siamo ormai di fornte a prodotti di natura diversa, a ‘libri’ fatti per la lettura piuttosto che per la declamazione cantata. La stagione del cantare arturiano (e non) era tramontata: i fascinosi motivi di quella letteratura sarano ormai assunti e trasformati nelle grandi opere letterarie di Pulci, Boiardo, Ariosto e Tasso.
13. Manoscritti e edizioni moderne
Cantare di Lasancis. Frammento di dieci ottave più un verso, conservato nel ms BNCF Magl. VIII 1272 (ca 1372). Pubblicato da Daniela Delcorno Branca in Cantari fiabeschi arturiani.
Cantari del falso scudo. Due cantari, trasmessi dal ms BNCF Magl. VII 1066, la cui trascrizione è attribuibile alla prima metà e forse agli inizi Quattrocento (Daniela Delcorno Branca 1999, 24-25; 1998, 204). Pubblicato da Daniela Delcorno Branca in Cantari fiabeschi arturiani.
Astore e Morgana. Ne rimane un frammento di 40 ottave, mancante dell’inizio (probabilmente le ottave perdute erano 24) e con la lacuna di un ottava fra le ottave 35-36. E’ trasmesso dal solo ms. Ricc. 2971, databile della seconda metà del Quattrocento. Il codice contiene anche la versione Cigni del cantare Ultime imprese e morte di Tristano. (Daniela Delcorno Branca 1999, 25). Pubblicato da Daniela Delcorno Branca in Cantari fiabeschi arturiani.
Gismirante, in due cantari, trasmesso “da un unico manoscritto, il codice 2873 della Biblioteca Riccardiana di Firenze …, fiorentino, databile intorno al terzo decennio del XV secolo” (Franco Zabagli 2002, 888). Pubblicato da Franco Zabagli in Cantari novellistici dal Tre al Cinquecento e da Maria Bendinelli Predelli, con traduzione inglese, in Gismirante. Madonna Leonessa.
Ponzela Gaia. Poemetto di 108 ottave tramessoci dal ms It. Cl. IX 621 (=10697) della Biblioteca Marciana di Venezia, “un manoscritto della seconda metà del Quattrocento, la cui filigrana è databile al 1467”. La lingua è “un dialetto veneto fortemente toscanizzato” (Barbiellini Amidei 2000, 11-12). Pubblicato da Barbiellini Amidei (Ponzela Gaia. Galvano e la donna serpente) e da Roberta Manetti in Cantari novellistici dal Tre al Cinquecento.
Carduino. Due cantari (?). Tramandato dal solo ms Ricc. 2873, datato 1432. Che la storia fosse nota nel Trecento è confermato dalla presenza del titolo in un “breve inventario trecentesco toscano” (BNCF Nuovi Acquisti 509), dove appaiono “due quadernucci di Tristano e di Lancilocto … Messer Galasso, … Carduino” (D. Delcorno Branca 1999, 16 e 22). Pubblicato da Pio Rajna, I Cantari di Carduino, 1873 (reprint 1968) e da Daniela Delcorno Branca in Cantari fiabeschi arturiani.
Bel Gherardino. In due cantari, tramesso integralmente dal ms BNCF Magl. VIII 1272, e in due spezzoni nei mss BNCF II.IV.163 (le prime 28 ottave) e Laur. Acquisti e Doni 759 (la parte restante). Fu trascritto nel Magl. VIII 1272 molto probabilmente prima del 1375 (De Robertis 1970, 110), mentre gli altri due mss sono del XV secolo. (Franco Zabagli 2002, 885-86). Pubblicato da Armando Balduino, Cantari del Trecento (Milano, Marzorati, 1970) e da Franco Zabagli in Cantari novellistici dal Tre al Cinquecento.
La Struzione della Tavola Ritonda. Tramandato dall’importante ms laurenziano Pluteo LXXVIII, xxiii, codice miscellaneo che raccoglie, in una sezione cartacea, un’antologia di cantari: Otto cantari di Amadio, il Cantare di Piramo e di Tisbe, il Cantare del Mercatante, Sette cantari di Lancellotto (cc. 130-169). Il titolo “Cantari di Lancelotto” è ricavato dagli explicit che compaioni alla fine di ogni cantare (“Finito il primo [secondo, terzo…] cantare di Lancelotto”), ma è probabile che il titolo originario del poemetto fosse “La struzione della Tavola ritonda”, argomento annunciato nella prima ottava del primo cantare (“la vaga storia della struzïone / della Ritonda Tavola, che tanto / ancor si noma per prosa e per canto”) e ripreso nell’explicit finale: “Finito il settimo cantare della struzione della Tavola Ritonda”. Nello stesso codice compaiono, in altre sezioni, le date 1415 e 1437. Il cantare fu pubblicato, con notevole introduzione, da E. T. Griffiths col titolo Li chantari di Lancellotto (Oxford, Clarendon Press, 1924).
Cantari di Febus-el-Forte. Poemetto in sei cantari, trasmessi dal solo ms BNCF Banco Rari 45 (già Magliabechiano II.II.33, già Cl. VII. P.2. cod.19), manoscritto forse degli inizi del Quattrocento. I caratteri linguistici della copia rimandano a “quella zona culturale senese che tanto ha dato a questo genere di letteratura” (Limentani CXV), anche se vi compaiono forme eterogenee. Le corruzioni del testo indicano che si tratta comunque di una copia lontana dall’originale. Il titolo è quello restituitogli dal più recente editore, Alberto Limentani; anticamente era stato chiamato “Febusso e Breusso”, o “Il Febusso”. Pubblicato da Alberto Limentani in Dal Roman de Palamedès ai Cantari di Febus-el-Forte.
Ultime imprese e morte di Tristano. Il cantare è tramandato dal ms BNCF Magl. VIII.1272 (già Gaddi 520), manoscritto che ci ha conservato anche il Bel Gherardino per intero, e frammenti di altri cantari (Cantare della Vendetta, Cantare di Lasancis, Guerra di Troia). De Robertis ha datato il blocco di fascicoli nei quali compaiono Le ultime imprese e morte di Tristano intorno al 1370 (De Robertis 1970, 73-74). La porzione che va dall’ottava 57 alla fine è testimoniata anche dal ms. 95 sup. della Biblioteca Ambrosiana di Milano (che riporta di seguito a questo anche il Cantare della Vendetta) in una trascrizione datata 1430, e di colorito linguistico lombardo. Nella versione ambrosiana, l’ottava 57 è sostituita da due ottave dall’andamento chiaramente introduttivo (“In lo tempo che fiorisse fiore e fruto / … / però son venuto qui a dire / como Tristan per la soa bella amanza / sosténe morte con gran penetanza.”). Il primo editore del cantare, Giulio Bertoni, divise perciò il racconto in due parti, la prima di 56 e la seconda di 35 ottave, intitolate rispettivamente “Le ultime imprese di Tristano” e “La morte di Tristano”; nella sua edizione del 1970, Armando Balduino restituiva però l’integrità del cantare secondo la testimonianza del ms magliabechiano, intitolandolo Ultime imprese e morte di Tristano. Recentemente Fabrizio Cigni ha scoperto e curato l’edizione di un’ulteriore versione del cantare, ricavata dal ms 2971 della Biblioteca Riccardiana di Firenze, attribuita alla seconda metà del XV secolo, che riporta le ultime imprese e la morte di Tristano senza suddivisioni, come il ms Magliabechiano, e conferma così l’arbitrarietà della divisione imposta dal Bertoni. Pubblicato da Giulio Bertoni, Cantari di Tristano, da Armando Balduino, Cantari del Trecento (Milano, Marzorati, 1970) e da Fabrizio Cigni, “Un nuovo testimone del cantare Ultime imprese e morte di Tristano”.
Cantare della Vendetta (La vendeta che fe’ meser Lanzelloto de la morte de miser Tristano). Le prime 16 ottave del Cantare, più tre versi dell’ottava 17, si trovano nel ms BNCF Magl. VIII.1272 (fiorentino, in una sezione collocabile intorno al 1370); l’intero cantare è invece tramandato dal ms Ambrosiano N.95 Sup., datato 1430. Pubblicato da Giulio Bertoni in Cantari di Tristano.
Duello al Petrone di Merlino (Cantare quando Tristano e Lancelotto combattettero al petrone di Merlino). Un solo cantare, trasmesso dal ms Riccardiano 2873. Datato 1432, il manoscritto raccoglie, insieme a poche altre composizioni morali e religiose, un’antologia di cantari trecenteschi (Passione di Gesù Cristo in ottava rima, Gismirante, Carduino, La Lusignacca, Cantare dei Tre preti, Madonna Lionessa, Apollonio di Tiro, ecc.); nella serie, il nostro occupa l’ultimo posto. Gli errori presenti nel testo rivelano che si tratta di una trascrizione. Nel generale tessuto linguistico toscano, anche questo testo presenta tratti non fiorentini, attribuibili al toscano meridionale e occidentale. Pubblicato da Pio Rajna in I cantari di Carduino.
Bruto di Bretagna. Un solo cantare, trasmesso dal solo “codice Kirkup” (oggi BNCF Nuovi Acquisti 333), collocabile fra il 1370 e il 1390. La lingua è toscana, con qualche forma che rimanda alla fascia sud- orientale della regione. Il codice è mutilo dell’inizio, ma è di fondamentale importanza perché riporta solo cantari di Antonio Pucci: ultime quattro ottave del Madonna Leonessa, Reina d’Oriente, Bruto di Bretagna, Apollonio di Tiro. Il titolo riprende la rubrica “Brutto di Brettagna” che compare sopra il cantare, ma che è di mano quattrocentesca. (Benucci, 888). Pubblicato da Elisabetta Benucci in Cantari novellistici dal Tre al Cinquecento.
“Un cavalier di Roma una fiata”. Un’edizione moderna della canzone del Pucci è reperibile in Rimatori del Trecento, edited by Giuseppe Corsi. Torino: UTET, 1969, 841-844.
“Al tempo della Tavola Ritonda”, canzone di sei stanze trasmessa dal ms. BNCF Pal. Panciat. 52 (già 74). Pubblicata da Pio Rajna, “Intorno a due canzoni gemelle”
Galasso della Scura Valle. Frammento trasmesso da un “fascicolo cartaceo di piccolo formato… di cc. 10 non numerate, del sec. XV” dell’Archivio di Stato di Venezia, Miscellanea di Atti diversi, manoscritti, busta 137, lettera a (D. Delcorno Branca 1999, 26). Lingua veneta. Pubblicato da Daniela Delcorno Branca in Cantari fiabeschi arturiani.
Innamoramento de Galvano, poema in 13 cantari del frate Evangelista Fossa, scritto a Venezia fra il 1494 e il 1497. L’edizione di riferimento è quella dell’editio princeps: Libro novo de lo Inamoramento de Galvano, stampata a Milano da Pietro Martire de’ Mantegazzi, s.d. ma attribuita alla fine del XV secolo, conservata a Milano, Biblioteca Ambrosiana, E 627. (D. Delcorno Branca 1998, 216-218).
Libro de Battaglie de Tristano e Lancelotto e Ghalaso e dela raina Isota, stampato a Cremona da Bernardino de’ Misinti e Cesare Parmense il 22 VI 1492 (un esemplare è nella Bibl. Governativa di Cremona), e poi a Milano da Giovanni da Castione nel 1523 – un esemplare all’Ambrosiana di Milano. Consta di tre cantari e narra come Tristano, derubato di armi e cavallo, uccida dei giganti e in seguito, assediato in un castello, sia liberato da Galasso e Lancillotto (Delcorno Branca 1998, 214 n.34).
Nicolò degli Agostini, Innamoramento di messer Tristano, Venezia, Alessandro e Benedetto Bindoni, 1520. Un esemplare alla Bibl. Universitaria di Bologna, Raro B 16 (D. Decorno Branca 1998, 110n.).
Nicolò degli Agostini, Innamoramento di Lancilotto e di Ginevra, continued by Marco Guazzo:
Venezia, Per Nicolò Zopino, 1521-1526.
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