Presentazione del poema
Maria Bendinelli Predelli
Piccone e poesia: l’esperienza d’emigrazione di Antonio Andreoni,
contadino lucchese (1901-1905)
Oh, Italia! Guarda come tu hai ridotti
i figli tuoi sol per voler mangiare:
donne, ragazzi, vecchi e giovinotti
se ne van fuor di stato a lavorare.
E tu, o America, con i tuoi complotti!
Giammai io non l’ho udito rammentare,
in nessun nazion mopderna o antica,
di aver pagato per durar fatica. (II 9)
E’ una delle numerose ottave di lamento che costellano il poema lasciato da Antonio Andreoni, un contadino della piana lucchese vissuto fra il 1859 e il 1945, che nel marzo del 1901 parte per andare a cercare lavoro in America, lasciando in patria la moglie e sette figli. L’emigrazione è concepita fin dall’inizio come un’assenza temporanea, un mezzo per mettere da parte un gruzzoletto e con questo mantenere la famiglia e magari realizzare un progetto in patria. Antonio Andreoni, infatti, tornato in Italia nel 1905, col denaro guadagnato in America ingrandirà la casa e comprerà un campo, senza raggiungere per questo lo stato di ‘benestante’: la sua famiglia sarà sempre considerata una delle più povere del paese. Il paese, anzi la frazione, è Colognora di Compito, comune di Capannori, provincia di Lucca.
È noto che in Toscana la provincia di Lucca è quella da cui più numerosi sono partiti gli emigrati per l’America. Nel 1901 furono 9,423 quelli che espatriarono dalla provincia di Lucca soltanto; Antonio Andreoni fu uno dei 135,996 italiani che entrarono negli Stati Uniti in quell’anno. Da quella sua esperienza americana l’Andreoni avrà certamente ricavato tutto un patrimonio di aneddoti e di storie da raccontare, una volta tornato in patria, nelle veglie fra amici e parenti. Ma, senza essere mai andato a scuola, l’Andreoni era uno di quei rari contadini che aveva imparato a scrivere, e aveva sviluppato il gusto per la lettura e addirittura per la scrittura e la poesia. Egli fece quindi di più: non solo mise per iscritto le sue memorie, ma dette loro una forma poetica, quell’ottava rima che era il metro per eccellenza delle storie romanzesche cantate dai cantastorie e trovate negli opuscoli che si compravano al mercato, in quella che è stata chiamata ‘letteratura da muricciuoli’. Rimase così patrimonio di famiglia un modesto bloc-notes, in carta di povera qualità, ma redatto evidentemente in bella copia, a penna, con una grafia chiara e ordinata, composto di quattro canti in ottava rima. Io l’ho ritrovato asolutamente per caso, un giorno che chiedevo ad un lontano cugino che abita nella campagna di Lucca se sapeva quali libri leggessero i suoi nonni, e questo signore mi fece: “Vuoi vedere il libro del nonno?”. E mentre io mi aspettavo che mi portasse un libro stampato posseduto dal nonno, mi vedo invece presentare il “libro” scritto dal nonno! È cominciata così la scoperta di questa straordinario documento di letteratura popolare, che parla della cultura delle classi contadine di fine Ottocento, e costituisce allo stesso tempo una testimonianza di prima mano dell’esperienza d’emigrazione vissuta da tanti nostri connazionali.
I quattro canti del poema trattano, il primo, il viaggio da Lucca a Chicago, col pezzo forte della traversata e della tempesta in alto mare, il secondo le sue vicissitudini alla ricerca di lavoro, e le prime avventure quando l’Andreoni viene impiegato come manovale in una squadra di manutenzione della linea ferroviaria Northern Pacific, nel tratto fra Mandan (North Dakota) e Miles City in Montana, con gli scherzi e i litigi fra i membri della squadra; il terzo canto è dedicato all’inverno e ad una sua disavventura in cui rischiò di perdere tutti i suoi averi, e il quarto continua il racconto delle vicende legate al lavoro della sua “ghenga” (la costruzione di una diga, la caccia, una malattia…). Il poema copre in realtà soltanto poco più di un anno del soggiorno americano dell’Andreoni, e si interrompe bruscamente, non si sa per quale motivo. L’ultima ottava del poema infatti recita: “Dunque, amici, vi lascio, e scuserete / se la mia storia al termine non tiro; / ma verrà tempo mi ritroverete, / e allor vi conterò tutto il mio giro / – però se avrn salute, l’intendete. /Preghiamo Iddio, che le sue grazie ammiro; / di grazie è Dio ripien, ma or mi dispiace / lasciarvi. O miei lettor, restate in pace.”
La lettura del poema ci fa ripercorrere la maggior parte dei motivi legati alla storia dell’emigrazione; fenomeni resi noti dai lavori di ricerca degli storici, e anche da narrazioni parallele di Italiani emigrati negli Stati Uniti. Fra i più vicini alla tematica del poema ricordiamo Pascal D’Angelo. A Son of Italy, New York: The MacMillan Co., 1924, di Pasquale D’Angelo, La scoperta dell’America di Carmine Biagio Iannace, Sulle orme di un pioniere, di Raffaello Lugnani a cura di Auilio Lugnani, Massarosa, 1988. Ma ogni storia di vita è personale, e le strofe della Campagna di Andreoni Antonio riescono ancora a commuovere chi riesce a intravedere, al di là di un linguaggio a volte non perfettamente grammaticale, le esperienze umane dell’autore e l’atmosfera che regnava in quelle squadre di manovali italiani. Degli innumerevoli motivi che rendono interessante questo testo ne additeremo qui soltanto alcuni, quelli che, certo anche nella consapevolezza dell’autore, costituivano le ‘meraviglie’ del soggiorno americano, e giustificavano perciò il progetto di raccontarlo in quell’ottava rima che era la forma per eccellenza delle narrazioni avventurose. È da tener presente che le regioni in cui l’Andreoni si trovò a lavorare era ancora fra le più primitive e selvagge: North Dakota e Montana erano ancora territori, non stati; soltanto 25 anni prima era avvenuta, proprio in quella zona, la famosa disfatta del generale Custer al Little Bighorn; e le città, fondate dalla ferrovia stessa, erano ancora in embrione. La prima ‘avventura’ che sorprende l’Andreoni nel lavoro di scavo delle trincee per lo scolo dell’acqua, ai lati della ferrovia, è l’incontro con i serpenti a sonagli: “Or io, non conoscendo quei contorni, / il primo giorno essendo a lavorare, / sulla trinciera me ne andai bel bello / e vidi un serpe con il campanello. // La biscia alsa la testa e fischia forte / e colla coda i campanelli suona / e già tentava di darmi la morte, / che su di me un forte slancio sprona, / ma presto mi ritiro… oh, dolce sorte! / Poi tanta gente fece la corona / e un di quelli, chiamato Rossino, / gli diede un colpo e gli troncò lo spino….. Più di venti in quel giorno ne fu ucciso / di quei serpenti a suono e velenosi.” (II 32, 34) Così cosciente era l’Andreoni dell’eccezionalità di quell’avventura che si prese la briga di conservarne un ricordo tangibile, in vista certo del racconto che ne avrebbe fatto un volta tornato fra gli amici, al suo paese: “Un’altra poi ne vidi e con un colpo / l’uccisi, e poi la coda gli tagliai, / e poi la rinserai in un involto / di carta e poscia me la conservai.” (II 33, 1-4) Un’altra ‘meraviglia’ è la scoperta di un Burning Coal Vein, il fenomeno per cui delle vene di lignite, accese forse accidentalmente da un fulmine, continuano a bruciare per anni di seguito. Il contadino lucchese, che certo non aveva mai sentito parlare di fenomeni di questo genere, nota che “da gran tempo si vedea fumare una montagna”, e un giorno decide di andare a vedere di che si tratta. La forte impressione che dovette riceverne è tradotta nell’accensione retorica del linguaggio con cui la racconta: “Chi quella gran montagna visto avesse / avrebbe detto: – Qui è l’inferno aperto -, / e il fuoco di laggiù si congiungesse / con quel che lì sortia, sicuro e certo. / Nessun sapea da dove si movesse / quei vortici di fuoco, e i mondo incerto / sapea ben sì che da ventitre anni / che quel monte bruciava con gran danni.”(II 40)
Altre esperienze eccezionali – e a volte tragiche – sono gli incidenti ferroviari ai quali l’Andreoni si trova ad assistere quando la sua squadra è chiamata a riparare i danni. La frequenza e la gravità degli incidenti negli Stati Uniti nei primi decenni di vita delle linee ferroviarie americano sono ben note, dovute in parte anche alla mancanza di misure di sicurezza per i lavoratori. Anche nel resoconto del poema i disastri ferroviari sono frequenti. Alcuni toccano compagni di lavoro, e allora l’emozione si fa più forte, come quando un gruppo di manovali, in viaggio per i binari su un carrello, viene investito da un treno: “Allora questi quattro disgraziati / giù dal carello ne furon saltati. // Ma per tre soli fu questa gran sorte, / perché fur destri assai giù nel saltare, / ma l’altro invece vi trovò la morte, / che il tren sopra di lui venne a passare: / lo arrotola, lo strizza a più ritorte, / che il sangue assai lontano fe’ schizzare / e tutte le altre membra fracassate… / Che morte fosse quella or voi pensate. (II 150-155)
Altre volte l’Andreoni è colpito proprio dalla grandiosità del disastro, ma sempre con l’attenzione rivolta al costo umano dell’incidente: “Un treno che poc’anzi era passato, / che verso dell’oriente se ne andava, / e non appena al ponte fu arivato / che giù dentro al vallon precipitava. / Il ponte, che non tutto era bruciato, / la macchina corendo via passava / ma quei vagoni che tenea rasenti / precipitaron nelle fiamme ardenti. // Chi quelle grandi fiamme visto avesse / ardere quei vagoni fracassati, / che pieni eran di tavole complesse / e di altri oggetti tutti caricati! / Ci volle un giorno pria che si spegnesse / quel fuoco; e sopra i ferri aroventati / dell’acqua in abbondansa si gettava, / che appunto lì vicina si trovava. // Il machinista fu ben fortunato / che la macchina dritta via passasse, / perché altrimenti sarebbe bruciato / sensa speranza che niun lo salvasse. / Il fuochista dal treno era saltato / prima che al ponte rotto egli arivasse / ma un frenator che sopra si trovava / dei cari, ambo le braccia si troncava.” (IV 25-27)
La nostalgia è la compagna più costante dell’emigrante. La lontananza dalla famiglia è avvertita soprattutto in occasione delle feste (il Natale), e la preoccupazione è alleviata soltanto dalle poche lettere che mettono mesi ad arrivare. Uno dei momenti più commoventi del poema è il racconto della gioia provata al ricevere una lettera da casa: il vaglia spedito con i primi risparmi sembra infatti non provocare alcuna reazione: “Ben trenta giorni aspetto la risposta, / ma passan questi e non mi viene ancora; / par che il destino me lo facci apposta / di farmi tribolar finch’io non mora; / e spesso spesso me ne vo alla posta / che le notizie aspetto di ora in ora; / ma ben passò più di sessantun giorno / che la risposta ancor non fa ritorno. // Piglio la penna, il calamaio e poi / la carta, e scrivo lacrimosa quella, / dicendo: “O moglie mia, perché tra noi
più non si scrive né si sa novella? / Il mio dolor lo causate voi / che colà state nell’Italia bella, / non so se nel piacere o nel dolore: / quest’ultimo a pensar mi addiaccia il core.” (II 130-131)Finché, finalmente: “una sera dopo lavorato / un plico a me mi venne consegnato. / La lettera ricevo con contento / e insieme a quel contento vi è il dolore, / e il core in petto palpitar mi sento / pensando a ciò che quella potrà espore. / Strappo la busta e gli occhi caccio drento / e in gaudio tutto cambia il mio dolore / e leggo in cima: “Caro mio consorte, / sian tutti fieri…. // Ecco, uditori, un giorno di allegrezza, / ecco, uditori, un giorno di conforto, / ecco, uditori, la più contentezza /che un uomo può provar pria che sia morto; / di gaudio, di conforto ne ho l’ampiezza, / da morte a vita mi par di esser sorto. / Or son contento, ve lo posso dire, / basta una volta prima di morire.” (II 141-142)
In questi versi l’autore riecheggia delle espressioni che egli trovava in un’opera poco nota agli studiosi di letteratura accademica, ma famosa invece fra le classi popolari italiane: si tratta della vecchia storia degli Amori di Paris e Vienna, rinarrata in ottava rima nel 1626 da un Angelo Albani da Orvieto e ripubblicata poi innumerevoli volte ad uso di un pubblico popolare. Il fatto che l’Andreoni ricorra all’imitazione di un’opera letteraria è proprio la spia dell’importanza che attribuiva a questo episodio, a cui voleva dare evidentemente una veste stilistica più alta.
Il poema non si può, evidentemente, raccomandare come opera ‘letteraria’ in senso proprio, ma come un tentativo, da parte di un poeta popolare, di dare veste letteraria al resoconto di un’esperienza avvertita come straordinaria e degna d’essere l’oggetto di un racconto simile a quelli dei romanzi che additavano alla fantasia di un pubblico non scolarizzato eroi e vicende avventurose. Ma è certamente meritevole di essere preso in considerazione come testimonianza di un cultura popolare ancora viva a cavallo fra Otto e Novecento, e come resoconto autentico di un’esperienza d’emigrazione italiana negli Stati Uniti. A tutte le persone di buona volontà che desiderano ricostruire la storia umile e grande dell’emigrazione italiana nelle Americhe, auguro di poter prendere conoscenza anche di questa affascinante Campagna di Andreoni Antonio. [1]
[1] Pubblicata sotto gli auspici dell’Accademia Lucchese di Scienze, Lettere ed Arti: Maria Bendinelli Predelli e Antonio Andreoni, Piccone e poesia. La cultura dell’ottava nel poema d’emigrazione di un contadino lucchese. Lucca: San Marco Litotipo, 1997.