Questo testo è stato pubblicato per la prima volta, con larga introduzione e bibliografia, dall’Accademia Lucchese di Scienze, Lettere e Arti, a cura di Maria Bendinelli Predeli (Maria Bendinelli Predelli – Antonio Andreoni, Piccone e poesia. La cultura dell’ottava nel poema d’emigrazione di un contadino lucchese. Lucca: S. Marco Litotipo, 1997).
Criteri di edizione
Nell’edizione del testo ho cercato di rispettare al massimo l’autenticità del manoscritto, conservando rigorosamente le devianze dalla norma che riflettono la pronuncia vernacolare (sceempiamento della r geminata, sibilante s al posto della z, sostituzione di –n a –m in fine di parola), e lasciando inalterata la sintassi.
Nel manoscritto le maiuscole sono usate regolarmente all’inizio di ogni ottava e per il nome di Dio; raramente e irregolarmente altrimenti. La punteggiatura è erratica e a volte irragionevole. Gli accenti sono usati quasi sempre correttamente; imperfetto invece l’uso dell’apostrofo che compare regolarmente dopo ed, ad seguiti da vocale, e manca dopo un po e simili. Ho perciò introdotto o regolarizzato la punteggiatura, l’uso degli accenti, dell’apostrofo, delle maiuscole; ho corretto le rare concrezioni (unboccone, cesce) e la grafia di cuore, cuoco, che il manoscritto rende regolarmente con quore, quoco. Ogni altra devianza dalla grafia del manoscritto è segnalata in nota.
PASSAGGIO DI
ANDREONI ANTONIO
NELL’AMERICA DEL NORD
in ottava rima
1. Amici tutti, se mi ascolterete,
vi voglio un fatto vero raccontare
e son sicuro che ne resterete
contenti come a un grande desinare;
e spero certo mi ringrazierete
di tutto quello che verrò a narrare;
ma poi vi prego, se mai lo leggete,
a cansonarmi non vi metterete.
2. Era di primavera allora, quando
mi risolsi in America tornare,
e come ben sapete, anch’io sperando
di poter qualche cosa guadagnare;
e triste allor mi parto, e sospirando,
per andare i miei compagni a ritrovare;[1]
e credo compassion ne avrà ciascuno:
era di marzo il Novecentouno.
3. Lasciando la famiglia in tanti affanni,
la moglie e sette figli – oh che afflizione!-[2]
presi il fagotto dove avevo i panni
e mi diressi verso la stazione;
colà vi ritrovai i miei compagni
e là ci riunimmo.[3] In conclusione
si monta in treno e si fece partita,
lasciando Lucca con doglia infinita.
4. Giunti che fummo a Genova ne andammo
a ritrovare[4] lo spedizioniere:[5]
arivati all’ufficio lor trovammo
intenti tutti a fare ill or mestiere.
Intanto a tutti quelli noi annunziammo
che presto per partire era il coriere;[6]
quegli ci disse allora che mancava
chi spedir ci doveva, e comandava.
5. “Sedete,” disse poscia, “ed aspettate,
che presto tornerà il nostro padrone.”
Sedemmo tutti e quattro chiacchierate
si fece, e intanto si mangiò un boccone.[7]
Di sera eran le[8] cinque già suonate
che lì si stave, e intanto quel coglione
che si aspettava non era tornato
e a noi ci batte il cuore[9] e c’esce il fiato.[10]
6. Crescendo il fiato cresce anche il furore,
vedendo questi che non ritornava.[11]
Intanto già partito era il vapore
e noi là nell’ufficio si restava.
Ritorna alfine, e assai di buon umore
come era andata a noi ci dimandava.
Noi gli dicemmo il tutto e quegli allora
disse: “Aspettate un momento, or vengo fuora.”
7. Si sté qualche momento ad aspettare,
poi venne fuori e si prese il cammino
ver la stazione per poter montare
sul tren diretto che andava a Torino.
Nella seconda classe ci fé andare,
e poi a me mi diede un pacchettino
dove era la moneta[12] per spedire
da Torino a Modane e proseguire[13]
8. il nostro gran viaggio, incominciato
con gran dolori, affanni, doglie e pene.[14]
Giunto a Modane, quivi dismontato,
con tutti i miei compagni uniti insieme,
un palmo e più di neve vi ho trovato,
che dal gran freddo si diacciava e treme;[15]
ma non potendo fuori star ne andai
dentro una stanza e lì mi riscaldai.
9. E colà stando, giunse mezzo giorno
e l’ora era ben certa di mangiare;
allora sorto[16] e feci un giro attorno,
poi dentro a un’osteria io volli entrare.
Mangiato che ebbi poi feci ritorno
verso della stazione, ad aspettare
tutti quelli che indietro eran restati
che in Alessandria gli[17] avean fermati.[18]
10. Giunti nella stazione, allegramente
un’eco rimbombò di voci unite,
ma io, povero misero e dolente,[19]
stavo pensando alle grosse ferite[20]
che aveo nel cuor, mentre colà piangente
tenea la moglie, i figli, e le partite
che faceo cogli amici e coi parenti,
e il cuor mi ritrovavo in gran tormenti.
11. Questo or tralasciamo, e far ritorno
voglio alla strada che aveo smarrita,[21]
e pria che fuori uscisse il caro adorno[22]
verso Parigi si fece partita.
Si seguita il cammino e l’altro giorno
verso le sette si arivò alla mita[23]
di quel terrestre corso e poi con fretta
si scese tutti come una saetta.
12. E camminando verso la marina
come dietro alla preda ne va il cane,
perché l’ora d’imbarco si avvicina,
chi ha buone gambe indietro non rimane.
Si passa tutti dentro una stanzina,
e lì mangiar convienci a tutti il pane
della lancetta di vaccinazione,[24]
poi ognun seguì la sua destinazione.
13. Io visto non aveva mai persone
quante ne vidi allor per imbarcare;
ognuno alle sue gambe dà di sprone
perché paura ha in terra[25] di restare;
ma vi rimase ben chi fu poltrone,
che fur trecento, e ognun le[26] può contare;
ma alfine a me riuscì di andare a bordo,
che alle chiamate non facevo il sordo.[27]
14. Montato che fui a bordo allegramente,
con tutti i miei compagni uniti insieme,
alle cuccette andammo immantinente,
ché di trovarla buona a ognun gli preme.[28]
Ci accomodammo tutti, e finalmente
sopra ne ritornai che il cuor mi geme,
pensando a quelli ch’erano restati
e il dolor mi venia da tutti i lati.
15. Ma io voglio finir di raccontare
il mio viaggio che feci per terra,
e dar principio voglio a quel di mare,
ché l’ora di partire giunta era.
L’undici antimeridie udii suonare
e il naviglio partì con lieta cera[29]
lasciando il porto, e sopra della schiena
dell’onda striscia con destressa amena.[30]
16. Tutto quel dì e l’altro navigammo[31]
sul dorso di quelle acque assai profonde,
ma quando al terzo giorno noi arivammo
il color vidi ricambiar dell’onde.
Anche quel dì assai lieti noi passammo
ma il quarto giorno a tutti il sol si asconde[32]
e un po’ di vento incominciò a tirare
e udimmo intanto il tuono rimbombare.
17. Come vi dissi, pian tirava il vento,
ma a poco a poco venne a rinforsare;
intanto già barcolla il bastimento
e pria del tuono viene il lampeggiare.
Ognun già si mostrava malcontento,
vedendo la burasca avvicinare,
insieme con la notte tetra e oscura
che a tutti quanti già mettea paura.[33]
18. Ci fecer tutti andare alle cuccette
per dare ai marinai libero il corso;[34]
intanto i lampi, i tuoi e le saette
venian come un corsiero sensa il morso,
e quando di mattina fur le sette
per andar sopra già ne presi il corso,[35]
ma ritrovai che tutto era serato:[36]
tutto confuso[37] indietro fui tornato.[38]
19. Intanto forte si sentia bussare,
quelle grandi onde che facean paura,
nel fianco al bastimento e insieme pare
che lo voglia mandare in sepoltura.[39]
Intanto a me già mi riuscì di andare
sopra, e vedendo quella faccia oscura,
quella burasca che incontro venia
che a ripensarci quasi dò in mattia.[40]
20. Venia cert’onde a tanta altessa ch’elle
perdean la forma e le sembianse di onde;
or la nave salia sopra le stelle
e su le nubi alsar parea le sponde,
or traboccar fra[41] le anime rubelle
sembra, nelle voragini profonde;
già un pezzo della banda[42] rotta avea,
e l’acqua come un fiume su correa.
21. Amici tutti, dovete venire
con me nel mezzo al mar con il pensiero,
e giudicate bene il mio patire,
se fosse grande: or voi ditemi il vero.[43]
E la burasca, invece di finire,
sempre crescendo va quel giorno intiero,[44]
tutto quel giorno e poi la notte ancora.
Alfin si vide comparir l’aurora.
22.[45] Come passai la notte non vo’ dire,
che tutti tremereste dal terrore.
Credevo propio in breve di morire
in mezzo di quelle acque traditore;
ma in breve la burasca andò a finire
ed io poi, ripensando al primo amore
della consorte e ancor dei figli miei,
piansi di gioia e ancora piangerei.
23. A poco a poco cessa la burasca
e ne ritorna il mar placido e piano.
Poi vo vedendo quella sponda guasta
del bastimento, e la toccai con mano;
le scale rotte poi come di pasta…
due lance via portò del capitano,
e un altro pezzo all’altra[46] banda amcora;
l’elice[47] sotto già più non lavora.
24. Io ne ringrazio il ciel di tutto cuore
che omai quella burasca era passata.
Credo fosse virtù del Creatore
e della madre sua Immacolata
che avea calmato l’impeto e il furore
e la calma del mar ci ha ridonata;
sicché noi tutti con gioia e conforto
di Nuova York ben si giunse al porto.[48]
25. Porto, sarai da me sempre chiamato
di gaudio, di conforto e di allegrezza,
ché omai è giunto il giorno desiato[49]
che posto hai i naviganti in sicurezza.
E quando il bastimento fu ancorato,
dier di piglio a scalare[50] con prestezza
tutti i bagagli, ed io ne andai a dormire
e mi svegliai del giorno all’apparire.
26. Verso le sette ci fanno scalare
e tutti là in dogana ce ne andammo,
ché la rivista ci convien passare
delle valigie, come a tutti fanno.
Su lo stimbotto[51] poi ci fan montare:
oh, allora sì che mi venne l’affanno![52]
Si naviga e si ariva al teritorio
di Castel Garde,[53] all’interogatorio.
27. Passato quello, andammo alla dispensa
dei biglïetti della ferovia,[54]
che di prenderlo presto ognuno pensa
e di sortir di là brama e desia.
Poscia con gran dolor ne restai sensa
dei miei compagni che ne andaron via,[55]
ed io ne restai per tutto il giorno
sensa né bere né mangiare un corno.
28. Verso le quattro venne un impiegato[56]
e fortemente cominciò a chiamare,
e quando il nome mio fu pronunciato
verso di quello[57] mi convenne andare.
Poi tutti quelli ch’egli avea chiamato
ci fece tutti insieme radunare
e poi le scale si scese di botto
e andammo tutti supra[58] lo stimbotto.
29. Poscia, rivolto un’altra volta a noi,
disse: “Voi anderete dal Bertini,
e ben ci mangerete, e ancora poi
voi ci risparmierete dei quattrini”.[59]
Si giunse là sudati come i buoi,
con certe facce come gli assassini;
ma quando ebbi bevuto e ben mangiato
il mio colore mi fu ritornato.[60]
30. La sera poi io me ne andiedi a letto
e la mattina dopo mi svegliai
verso le nove, e poi non già soletto
allo stimbotto me ne ritornai,
poi a Castel Garde a prendere il biglietto,
sì quel biglietto che non ebbi mai,
di quella maledetta ferrovia
che a Chicago condurre mi dovia.[61]
31. Quand’ebbi avuto la famosa insegna
che sol dai treni vien riconosciuta,[62]
vo allo stimbotto e con la pancia pregna
di fame, che da me solo è sentuta;[63]
e l’orologio l’una e mezzo segna[64]
e mi è la fame in modo tal cresciuta
che appena appena mi reggevo in piedi,
ma subito a mangiare me ne andiedi.
32. E quando ebbi bevuto e ben mangiato
si dà di mano per pagare il conto;
e quando ognun di noi ebbe pagato,
delle valigie il carro era già pronto.
Quello sen parte, e noi da un impiegato[65]
ci fé montar sul carro elettriconto;[66]
e quando fummo giunti alla riviera
si scese, e quasi giunta era la sera.
33. Colà trovammo pronto lo stimbotto
e noi su quello tutti ne montammo
e verso la stazione drizza il trotto,
ch’eran le cinque quando noi arivammo.[67]
Sul tren si monta e poi sensa far motto
– ché i macchinisti sempre pronti stanno –[68]
si parte, si cammina e l’altro giorno
si giunse a Buffalò, e lì fermorno.[69]
34. Nel mezzo alla città si trova un lago,
e chi dell’altra parte vuol passare
bisogna navigar, non vi è ripago,[70]
onde col tren ci fecero imbarcare.[71]
Allor mi ritrovai contento e pago
e il treno ricomincia a camminare,
che alla fine a Chicago fui arivato,
alla stazion Grantronco nominato.[72]
35. Sceso dal treno, fuori me ne andai
della stazion. Sostando un momentino,
pensando e poi osservando, ritrovai
la strada che portava in Francolino.[73]
Il tempo nevicava e m’inviai
con dieci altri compagni al mio destino,[74]
e spesso spesso noi si sdrucciolava,
che dal gran freddo la neve diacciava.[75]
36. Alfin fra[76] tante pene e freddo tanto
sofferto in quella notte, noi arivammo
al luogo[77] destinato, e gaudio alquanto
sentimmo certo quando il piè fermammo;
ma poi il mio cuor tornò sì triste e affranto
perché le porte chiuse noi trovammo.
Ma dentro a un coridor[78] ne andammo in fretta,
quivi passando un’ora assai negletta.
37. Era circa mezz’ora avanti giorno;
fuori essendo, girando per la strada,
vidi apparire un uomo in quel contorno
che a destra né a sinistra egli non bada.
Si ferma quegli, ed io[79] gli dò il buongiorno:
“Amico,” dissi[80] “se il mio dir vi aggrada,
son quivi giunto che saran tre ore
coi miei compagni e dal freddo si muore.”
38. Quegli mi disse: “Se venir volete
nel mio salón[81] che adesso vado aprire,[82]
ve l’assicuro, vi riscalderete
e cesserete il freddo di soffrire.”
Si va là dentro e, come fece Alete
al pio Buglion, m’inchino e presi a dire:[83]
“Dateci della birra, che beviamo
intanto che un boccon quivi mangiamo.”
39. Si bevve, si mangiò, ci riscaldammo;
intanto il giorno era comparso appieno,
e ognun dall’altro poi ci licenziammo,
col cuore in petto di tristezza pieno.
I miei parenti ad aspettar mi stanno,
che di trovarli il cuor mi batte in seno;
ma poco dopo quelli ritrovai
tutti in salute, e tutti gli[84] abbracciai.
40. Come una madre quando scorge un figlio
che è molto tempo che non ha veduto
gli batte il cuore e se gli bagna il ciglio
dal gaudio a quell’incontro impreveduto,[85]
tal fece il mio cugin,[86] quando di piglio
si fur le destre insiem,[87] ma poi veduto
ebbi il fratello mio da un altro lato;[88]
anche lui col cugino ebbi abbracciato.
41. Poi venne la cugina, ossia la moglie
del mio cugino, con i figli suoi
che freschi erano tutti come foglie,
onde contenti se ne stan con noi.
“Sper’ or saran finite le mie doglie
e mi rallegro stando qui con voi…”
Poscia noi ce ne andammo a passeggiare
e a mezzogiorno tutti a desinare.
42. Che pranzo di contento che fu quello,
sicuro non da me giammai provato,[89]
ché stando là una vita rinnovello,
essendo giunto al luogo desiato.
Vi lascio, amici, né di più mi appello[90]
perché il viaggio mio è terminato
e terminata è ancora la mia storia:
or leggetela tutti per memoria.
Fine del primo canto.[91]
Canto Secondo
LA CAMPAGNA[92]
DI ANDREONI ANTONIO
- Se Apollo assisterà questo mio canto,[93]
se in queste rime mi vuole aiutare,
vi conterò della mia vita intanto
che mi toccò in campagna a me passare.
Voi già sapete il mio viaggio,[94] e quanto
per giungere a Chicago ebbi a penare.
Ma un altro[95] ne principio, e attenti state,
e sentirete cose inaspettate.[96]
2. Signor, vi dissi nel canto passato[97]
che la mia storia era terminata,
ma un’altra bella n’è[98] venuta a capo,[99]
per me, sì,[100] impreveduta e inaspettata.[101]
Come vi disse, essendo io arivato
nella città Chicago nominata,
la girai tutta per trovar lavoro
ma sì, nell’acqua ci feci un bel foro.[102]
3. Ora essendo una sera in un salone[103]
con certi miei compagni che bevevo,
vennero a me vicino due persone
che certamente io non conoscevo;
e sì[104] parlando come un cicerone
mi disse se in campagna andar volevo,
a lavorare sulla ferrovia,
“che presto la partenza credo sia.”[105]
4. A dir la verità io ero già stato
a un che anche lui gli uomini[106] cercava,
e sul suo libro ero di già segnato,
e la partenza ognuno si aspettava.
Il giorno venne sì da noi bramato,
e lui partiva e noi là ci lasciava;[107]
onde costretto fui di ritornare
i due non conosciuti a ritrovare.
5. Ben risoluto sì mi parto un giorno,
con altri miei compagni assai vicini,
per veder se trovar poteo il soggiorno
dove abitavan quei due cicerini.[108]
Li ritrovai:[109] ma di un non seppi un corno,
ma l’altro si chiamava Lorenzini:
Luigi Lorenzini si chiamava
e questo è quel che gli uomini[110] cercava.
6. Quando si ebbe quest’uomo ritrovato,
ci disse: “Dunque volete venire
a lavorar con me nel Colorato?[111]
Ma di una cosa vi debbo avvertire:
che chi vuol esser qui[112] da me segnato
bisogna che consegni cinque lire.”
Sicché gli diedi un duro,[113] a me sì caro,
che quasi io ero privo di denaro.
7. Quando ebbi la caparra consegato
verso la casa ne feci ritorno,
e quando in Frankilino fui tornato,
per sette giorni stetti in quel contorno.
L’ottavo giorno poi fu ritornato
Luigi Lorenzin a noi d’intorno,
e disse a tutti allor di preparare
cinque altri scudi[114] per depositare.
8. Ci disse ancora che più non si andava
nel Coloredo ma nel Washingtone.[115]
Della partenza l’ordine aspettava
con telegramma dal propio padrone.
Il due di aprile venne e ci avvisava
che il dì seguente al corso si dà sprone.
“A finir di pagar dunque venite,
che se un sardate[116] il conto non partite.”
9. Oh, Italia![117] Guarda come hai tu ridotti
i figli tuoi sol per voler mangiare:
donne, ragassi,[118] vecchi e giovinotti
se ne van fuor di stato a lavorare.[119]
E tu, o America, con i tuoi complotti!
Giammai io non l’ho udito rammentare,
in nessuna nazion moderna o antica,[120]
di aver pagato per durar fatica.[121]
10. Io tengo a mente il proverbio che dice
che l’uom non può saper pria di morire
se sarà disgraziato o pur felice,
e nemmen sa quel che gli può avvenire.[122]
Lo so ben io,[123] me misero e infelice:[124]
pagai per lavorar sessanta lire![125]
Ma questi bei proverbi tralasciamo,
e il nostro bel racconto seguitiamo.
11. Come vi dissi, aveano stabilito
che andare si dovea nel Washingtone,
ma quando di pagare ebbi finito,
il Lorenzini cambia direzione:[126]
di andar nel North Dakota[127] ha definito.
“Stasera, a ritrovarci alla stazione,
stazion Chicago Grand West detta.[128]
Andate tutti a prepararvi in fretta.”
12. Tutto vien preparato e poi si parte,
il tre d’aprile alle dieci di sera.[129]
Verso San Paul la strada si batte,[130]
come assassini[131] usciti di galera.
Si scende alla stazione e, a gambe scarte,[132]
sol per mangiar si andò da una megera
che per farci mangiare essa ha lavato
una marmitta dove fea il bucato.
13. Quando ebbi visto fare quel bel gioco,
mi ritirai per non poter soffrire.
Intanto mette la marmitta al fuoco
con l’acqua dentro e poi la fa bollire.
Vi mette poi la pasta, e a poco a poco
cuocer la fa, poi comincia a servire
di quella roba che già cotta avea,
che in due gran vasi in tavola mettea.
14. Tutti andorno a mangiare ed io di fuori
restai:[133] ma già il mio corpo avea mangiato,
perché aspettar non volli quei signori
e neanche il pranzo per lor preparato.
Ma là di dentro giuri[134] assai sonori
sentio tra lor, ché il vino gli ha portato:[135]
chi beve poco e chi tanto bevea,
e poi pagar lo stesso ognun dovea.
15. Dopo mangiato, ognuno andò a comprare
il necessario che gli abbisonava.
Presto le cinque vennnero a suonare
e ognuno alla stazion si avvicinava.
Tutta la notte ci fan caminare[136]
e il giorno dopo intanto si arivava
col treno e tutte quante le persone
a un paese chiamato Dickinsone.[137]
16. O Dickinson, sarai per me memoria
e sol principio di tribolazione,
che su di me puoi dir di aver vittoria,
di avermi fatto una sì truce azione,
ché te mi festi sì cantà un bel glioria[138]
il dì di Pasqua di resurezione…
Ma già mi scuserete, o[139] miei uditori,
che dalla strada sorto spesso fuori.
17. Ma la mia storia or voglio seguitare,
e dirvi voglio come mi trovai[140]
in quel paese là di male affari,
per me ripieno di tristezze e guai.
I vagon poi ci fanno consegnare,
e colà dentro la roba portai,
ché quelli per la casa e per dormire
a tutti quanti ci dovean servire.[141]
18. Ognuno cerca di occupar il vagone,[142]
sì, quel vagone che gli si aspettava.[143]
Intanto tutte quante le persone
alla meglio che può si accomodava;
poscia tre se ne vanno a Dickinsone,
sì, per gli oggetti che ci abbisognava,[144]
oggenti alla cucina necessari,
che ottanta soldi mi costò in denari.[145]
19. Comprato che fu tutto l’occorente,
la roba ci volea per cucinare,
ma in quel paese non si trova niente,
e sensa niente non si può mangiare.
Era il sabato santo, e il dì vegnente,
giorno di Pasqua, si ebbe a digiunare,
ché pan non se ne trova in quel contorno:
ero digiuno e l’era[146] mezzo giorno.
20. Per non morir di fame in giro andai
per veder se trovar poteo qualcosa,
e viaggiando alfine capitai
ad una casa dove era una sposa.[147]
Con riverensa a quella dimandai
se latte lei ci avea od altra[148] cosa.
Quella disse che niente non ci avea,
poi volta il culo e l’uscio richiudea.[149]
21. Al vagon torno mezzo disperato,
e via pensando come poteo fare;
intanto un mio cugino avea trovato
dell’uova e mezze me le feci dare.
Con quelle feci un pranzo assai garbato
e sì la fame mi potei levare
– che furon quattro.[150] Oh che disperazione!
Tal fu la Pasqua fatta a Dickinsone.
22. Quanti spasimi e pene e quanti stenti,
girando il mondo, ci convien soffrire!
La nostra vita è piena di tormenti,
già non volendo questi mai finire;
e pochi sono i nostri godimenti,
che alfin vien l’ora di dover morire,
con spasimi, con stenti e con dolore,
e da godere noi ci abbian[151] poche ore.[152]
23. Nel mille ottocen cinquanta nove,
di aprile nacqui, e credo il giorno sette,
e delle pene io ne ho in man le prove
che ho già sofferte, ed or le unisco a queste,[153]
e sopra a queste ne verran di nuove,
che allor si forma un mare di tempeste,
tempeste sì che in questo mondo ormai
lo vedo pieno di tristesse e guai.[154]
24. Crescono i guai e crescono le pene,
crescon gli affanni e cresce anche il dolore,
pensando a quelli che stan tanto bene,
ed io son qui[155] che mi si addiaccia il cuore,
sendo teatro di sì triste scene,[156]
e non potendo aver quel che ci occore.
Ma in questo mondo ci vuol gran paziensa
e sempre ringraziar la provvidensa.[157]
25. Amici, a tredici anni principiai
a girar il mondo ed ho sempre girato,[158]
ma come qui non mi son trovo mai,[159]
neppur quando in Italia[160] ero soldato.
Sofferto avrò di molte pene e guai
ma della fame non ne ho mai provato;
ed ora qui in America mi[161] trovo
a provar quello che non ho mai provo.[162]
26. Anche sensa mangiare passa il tempo,
e intanto giunsi a lunedì mattina
e, congregato tutto il reggimento,
si stabilì di formar la cucina:
si sceglie il cuoco, e il panattier[163] contento
fu di formare il pan con la farina.
Il cuoco Pietro Dini si chiamava,
e Guidi il panattiere si appellava.
27. Avendo poscia conoscensa presa,
in quel paese si venne a trovare
un bottegaio da farci la spesa,
che sensa soldi si potea pigliare
riso, carne, fagioli, e sensa offesa
tutto sul libro noi si fa segnare;
ma pan non se ne mangia[164] perché il forno
mancava, e cambiar si dovea soggiorno.[165]
28. Tre giorni ancor si sté sensa partire
ma presto venne il giorno desiato:
era preciso l’undici di aprile
che noi lasciammo quel paese ingrato
e a Sully Springs ci andammo a stabilire;[166]
e là passando il tempo lieto e grato,
alle trinciere[167] noi si lavorava
e al carro a mangiar sempre si tornava.
29. Colà si lavorava uniti insieme,
e sì passando i giorni lieti ancora;
ma un giorno al bosso[168] un telegramma viene
che al paese ne andasse di Medora.[169]
Sette di noi presto partir conviene,
ché vi era roba alla stazion di fuora,
a noi diretta; ma colà arivati,
si costatò che si erano sbagliati.
30. Un poco in quel paese ci fermammo
e poscia in un salone andammo a bere
un po’ di birra; e poi gli dimandammo
quanto costava per ciascun bicchiere.
“Dodici soldi e mezzo, e sensa inganno”[170]
ci disse allora a noi quel saloniere.
Si paga il conto e poi si fa partita
per Sully Springs con doglia infinita.
31. A Sully Springs si sta ventisei giorni
ma l’otto maggio ci fecer cambiare
e a Fryburg[171] si va, e nei dintorni
era il lavoro che si aveva a fare.
Or io, non conoscendo quei contorni,
il primo giorno essendo a lavorare,
sulla trinciera me ne andai bel bello
e vidi un serpe con il campanello.[172]
32. La biscia alsa la testa e fischia forte
e colla coda i campanelli suona[173]
e già tentava di darmi la morte,
che su di me un forte slancio sprona,
ma presto mi ritiro… oh, dolce sorte![174]
Poi tanta gente fece la corona
e un di quelli, chiamato Rossino,[175]
gli diede un colpo e gli troncò lo spino.[176]
33. Un’altra poi ne vidi e con un colpo
l’uccisi, e poi la coda gli tagliai,
e poi la rinserai in un involto
di carta e poscia me la conservai.[177]
Or, non essendo dai vagoni molto
lontano, a fare il forno me ne andai;[178]
e, stando intorno al forno a lavorare,
di nuovo un bel sonaglio ebbi ammazzare.
34. Più di venti in quel giorno ne fu ucciso
di quei serpenti a suono e velenosi.
E tutti lavorando con buon viso,
schersando ognora con i più curiosi,[179]
contenti stando come in paradiso,
e là passando i giorni assai gioiosi,
ma il quattordici maggio, oh[180] trista sorte!
poco mancò che non trovai la morte.
35. Or come avvenne il fatto vi vo’ dire:
essendo un treno in gara[181] a manovrare,
e l’ora essendo giusta di dormire,
un gran rumor di fuor venni ascoltare;
dopo il rumore ancor venni a sentire
un gran colpo che giù mi fé cascare:
quel tren nella stazion che manovrava
nei nostri carri un forte colpo dava.
36. Per nostra gran fortuna il conduttore
aveva il volkintreno[182] incatenato,
ma il colpo che venia con gran furore
ruppe la verga cui era legato,
mandò tre carri in pezzi con terrore,
e nei vagoni tutto fracassato,
che il dì seguente nessun volle andare,
di quanti noi eravamo, a lavorare.
37. Come a Dio volle,[183] nessun restò morto;
qualche ferito sì, ma leggermente.
Se il nostro conduttor non era accorto
era per noi la notte più dolente.
Iddio di ciò ringrazio, e con trasporto,
che del mal grave non successe niente,
perché i nostri vagoni erano avanti
del volkintren sei metri e più distanti.
38. Il dì medesmo venne il rodomastro[184]
insieme col dottore a visitare,
ché già egli avea saputo del disastro,
e ancor le cose volle accomodare
e poi ci disse: “Quel che ci è di guastro[185]
tutto si paga.” E poi ci fa tornare
a Sully Spring per un po’ di tempo,
che ognun di noi ne restò mal contento.[186]
39. Ora essendo in quel luogo a dimorare,
e là passando i giorni assai felici,
ma da gran tempo si vedea fumare
una montagna con diversi auspici;[187]
e un dì la voglia venne a me di andare
presso a quel luogo, con diversi amici,
e colà giunto vidi di repente
sotto a quel monte una fornace ardente.[188]
40. Chi quella gran montagna visto avesse
avrebbe detto “qui è l’inferno aperto”,[189]
e il fuoco di laggiù si congiungesse
con quel che lì sortia, sicuro e certo.
Nessun sapea da dove si movesse
quei vortici di fuoco, e il mondo incerto
sapea ben sì che da ventitre anni
che quel monte bruciava con gran danni.
41. Or questa gran fornace vo’ lasciare
e quel luogo funesto, orendo e brutto,
e voglio al mio vagone ritornare,
ché di quel luogo aveo veduto il tutto.
In seguito, tornando a lavorare,
io vidi in cime a un monte un uom costrutto
che un dì, curioso,[190] a veder volli andare,
ché inosservato niente ha[191] da restare.
42. Appena in cima al monte fui arivato
mi misi ad osservar quel colosseo:[192]
che avea uno scritto in petto ebbi osservato
ma spiegar quella frase io non poteo.
Ma quando al mio vagon fui ritornato
spiegar mi feci quello scritto anteo,[193]
e par ch’ella dicesse: “O posti iniqui,
o terra infame degli Stati Uniti.”[194]
43. Or rimirate voi in quale stato
e in quale terra sono alfine io giunto!
Già lo sapeo che sono disgraziato
ma non credeo di giungere a tal punto.[195]
Alfin poi giunsi al giorno desiato
del venti maggio, prima paga, assunto[196]
che alla stazione di Belfield si prese,
e dopo alquanti giorni là si scese.
44. In quel paese si sta poco tempo,
ché al bosso un giorno un telegramma viene
che cambiar si dovea nel momento,
e di approntarsi a tutti noi conviene.
Si parte, si cammina come il vento
e, per la strada ragionando insieme,
tutta la notte si cammina, e a giorno
al paese di Grandais[197] si fermorno.
45. Si cambia brickmen[198] e conduttore,
macchina, faia men[199] e macchinista
e ciò vedendo mi si addiaccia il cuore;
ma non l’intiera ghenga[200] a ciò si attrista
perché qualcun tenea un gran rancore
col faia men, che un dì fece conquista[201]
con l’interprete nostro Lorenzini,
per causa di discorsi poco fini.
46.[202] Dopo due ore si lasciò Grandai
e il treno ricomincia a camminare
(“cammina pur, che alfin ti fermerai!”),[203]
sicché alle sette si venne arivare
ad un paese che un[204] credevo mai
che così bene si dovesse stare.
Or quel paese si chiama Fallone,[205]
e il treno là si ferma alla stazione.
47. Quel dì che alla stazione si arivava
l’aria era cupa e il tempo piovvicína,[206]
e il rodomastro alfin ci dimandava
se lavorar si volea quella mattina.[207]
Di riposarsi un poco ognun bramava
gli fu risposto, a farla corta e fina,
sicché tutto quel dì mi riposai
e a mezzo giorno a letto me ne andai.
48. Il giorno dopo torno a lavorare
al solito lavor che si facea,
perché bramoso ero di guadagnare
(non solo a me ma a tutti gli premea).
Dopo sei giorni colà venne a fare
una burasca che ognun si credea
di restar morti, ma la provvidensa
ci diè soccorso e di mal restai sensa.
49. Or lasciamo il lavoro alla malora[208]
e ragionar voglio dei lavoranti,
che di conquiste[209] son ripieni ognora
perché una ghenga gliè[210] di litiganti.
Il cuoco è il primo, e insien[211] con altri ancora,
che mangiar lui ci fa come emigranti
perché col panattier non van d’accordo
e ognun fa il suo lavoro e a l’altro è sordo.
50. Or, come voi sapete, essenso insieme
a lavorare il panattier col cuoco,
ma il lor lavoro non andava bene[212]
perché un dell’altro si prendeva gioco,
e un dell’altro di dir mal gli preme
perché cacciato ne sia via col fuoco
della discordia; e questa[213] toccò al Dini,
che di superbia sorpassa i confini.
51. Già da gran tempo qualcun sussurava
che il cibo diaccio ci facea mangiare,
ma un giorno che nel bordo[214] ci mancava
la roba, l’uncia[215] non si poté fare.
Si parte e a mezzogiorno si tornava
credendoci un buon pasto di trovare:
invece a tutti noi ci ha preparati[216]
un piatto di fagioli assai gelati.
52. I giuri,[217] le bestemmie e imprecazioni
che tiraron quel dì non saprei dire.
Allora si concordan le opinioni
che il Dini da far il cuoco ha da sortire;[218]
ma poi la rabbia passa, e le occasioni
più opportune si aspetta a riferire.
Ma un dì che venne un po’ rimproverato,
in furia[219] monta e si fu licenziato.
53. Tutti si trovan di comune accordo
che il Dini se ne parta e vadi[220] via,
e gli fu fatto il conto fino a un sordo
e poi pagato dalla compagnia;
ma intanto un altro[221] entrar dovea nel bordo
a far mangiar, ma l’aristocrazia
che in tanti vi era e che si supponeva
che il Lorenzini in tasca si metteva.[222]
54. Già da gran tempo qualchedun dicea
che il Lorenzin su noi facea bottino;
per questo il bordo un po’ si disfacea,
e fuori ne sortì circa un diecino;[223]
ma gli altri tutti che si rimanea
si mette a cuoco un certo Giuseppino,
già Cristianini,[224] nato nel Galleno,[225]
che di scensa e virtù parea ripieno.
55. Oltre di questo, ancor furono scelte[226]
cinque persone sol per riguardare
i conti tutti, e nella spesa esperte,
e che nel bordo niente ha da mancare.[227]
Luigi Lorenzini ben si avverte
che lui la spesa più non debba fare
sensa saperlo tutto il comitato,
sotto pena dal bordo esser cacciato.
56. Or stabilite tutte queste cose
e preso il bordo libero il suo piano,
il Dini di partire si dispose,
dopo ch’egli formato ebbe un arcano[228]
con poche paroline, e assai ingiuriose,
che scrisse in un biglietto di sua mano,[229]
e poi lo lascia ad un mentre partiva,
che quel che ha scritto è vero,[230] e l’asseriva.
57. Quel che dicea il biglietto non vo’ dire,
perché parole son troppo offensive,[231]
per questo la mia penna fo dormire
e sempre dormità finch’ella vive;
ma certo lo verete a rinvenire,
sebben che la mia penna non lo scrive
perché il biglietto venne pubblicato[232]
due giorni dopo che fu consegnato.[233]
58. Lascian questi discorsi alla malora,
che vergogna ci fanno e disonore,
e ritornar vo’ sul lavoro ancora,
che tutti si struggeva dal sudore;
ma il tempo giunse di cambiar dimora
e una sera si parte con dolore
e, non sapendo noi dove si andava,
al paese di Tusler si arivava.[234]
59. Che sia un paese quel non si può dire,
ma fangoso padul si può chiamare,
ché quando dal vagon si ha da sortire
sempre sul fango a noi ci tocca andare,
e colà stando mi par di soffrire;
ma il tre di luglion ci faccian portare
a Miles City,[235] ma distanti un miglio
fuor del paese, sensa alcun bisbiglio.[236]
60. Or perché avvenne questo cambiamento
presto ve lo dirò in poche parole;
e di cambiarci ciascun fu contento
e si partia quando calava il sole,
che il dì seguente era quel giorno intento
a festeggiar, che ciascun anno suole:[237]
quattro di luglio, for giulai chiamato,
che dall’America tutta è rispettato.[238]
61. La mattina del quattro avanti giorno
io me ne parto e me ne vo in paese
per certi affari, e appena spunta il giorno
me ritornavo già lieto e cortese;
non appena compiuto il mio ritorno
che il tempo minacciava a più riprese:[239]
già tira il vento come disperato
subito che nel caro ne fui entrato.
62. Il vento tira e sempre più rinforsa
e insien col vento l’acqua giù cadeva
e a grandinar comincia a tutta forsa,
che già paura a qualchedun metteva.
Si chiude l’uscio, e il vento dà una scossa[240]
che tutti i carri rovesciar voleva;
già tutti si tremava di paura
che si dovesse andare in sepoltura.[241]
63. Or non potendo i cari rovesciare
questo vento furioso, infame e ardito,
uno però lo venne a scoperchiare,
che presto ognun di dentro fu fuggito,
e in altri carri gli convenne andare
per ripararsi, ed un restò ferito
da un chiodo in una gamba, e in avvenire
da quel suo mal molto dové soffrire.
64. Appena la burasca fu cessata
e il ciel sereno intanto ritornato,
la grandine che vi era ammonticchiata
facea suppor gran danno cagionato.
Intanto si passò mezza giornata,
e a mezzo giorno in punto fu arivato
l’ordin che tutti si doveva andare
un gran pezzo di strada a rassettare.
65. Come sapete ben, quella mattina
del quattro luglio la burasca fece[242]
e apportato alla strada gran rovina,
ché tanti terrapieni ivi disfece;
diversi ponti rotti,[243] e per la fina[244]
contarla non si può come a noi lece,[245]
e un pezzo a Tusler della ferrovia
questa grand’acqua avea portato via.
66. Or giunta in fretta e furia una macina,[246]
e il bosso avverte[247] che si deve andare
sul luogo ov’è[248] successa la rovina,
e quella strada presto ad assettare,
perché l’ora e il momento si avvicina
che i passeggieri[249] devono passare;
ma nonostante[250] per tre giorni interi
tutti stan fermi, treni e passeggieri.
67. Quando fu messa in ordine la strada
il treno passa e i passeggieri ancora,
che di partire a tutti ben gli aggrada,
perché un istante[251] gli pareva un’ora.
Quivi noi tutti a lavorar si abbada
e poscia in breve si cambiò dimora,
ma prima la dimora di cambiare
un po’ del panattiere vo’ parlare.
68. Luigi Guidi, il nostro panattiere,
in nessun modo mai volle accordare
di fare i taglierini, e il suo mestiere
diceva ch’era il pan soltanto fare;
quindi l’accorda, ma con dispiacere,
e un dì venir doveva a lavorare
per ogni settimana, ma alfin poi
si stanca e sotto non vuol star di noi.
69. Subito si dimette, e fra un bricino[252]
di tempo[253] in tutti la voce si spande.
Si fece avanti allora un uom piccino,
pien di coraggio come fosse grande.
Questi avea nome Guerazzi Valentino,[254]
che mezzo braccio lunghe avea le gambe.
Il tutto accetta, e più lui vuole fare
il pane ad altri e per sé guadagnare.
70. Ma noi che il pane fresco si volea,
quel suo progetto non gli fu accordato.[255]
Intanto a fare il pane si mettea:
la prima volta lo chiappò[256] bruciato,
la seconda mangiar non si potea,
e un’altra, mentre il pane avea infornato,
gli casca il forno; e quegli addirittura
di fare il pane si mise paura.
71. Or non sapendo questi come fare,
e per paura di esser cansonato,
fece saper che ritto non può stare,
ma poi non so se proprio era ammalato.
Ora noi un altro bisognò cercare[257]
che il pane ci facesse, e fu trovato:
questi era un certo Valente Malfatti,
che sicuro non era dei più scalti.[258]
72. Questi accettava, e dalla commisione[259]
gli fu annunziato ciò che dovea fare;
ma adesso vo’ tornare in conclusione
al mio racconto che dovei lasciare;
ma già che cambiar debbo direzione,
un poco indietro voglio ritornare
e dirò di un che Orlando si chiamava,
che andò in paese e le scarpe comprava.
73. Comprato che ha le scarpe ed altre cose,
e poi bevuto ancor più del dovere,
di ritornare al carro si dispose,
perché in paese non vuol rimanere.
Si parte insien con gli altri, e in paludose
strade si trova, ch’egli ebbe a cadere
più volte in terra, e al carro poi arivato,
con una scarpa sola si è trovato.
74. Di quelle scarpe ch’egli avea comprato,
sì, per la strada una ne perdea,
che ben tre scudi quella avea pagato;
ma sol con una andare non potea.
Il giorno dopo Orlando ha raccontato
il fatto a tutti e ciaschedun ridea.
Or questi[260] tralasciamo, amici amati,
e vado a Tusler, ove ci han già portati.
75. Una sera, tornando dal lavoro,
una burasca ci venne assalire[261]
che se non era il nostro conduttoro[262]
si andava in rischio di dover morire.
Il vento venia forte come un toro
e l’acqua insien che non vi saprei dire,
ma tutti nel cabuso[263] ce ne andammo;
così, come a Dio volle,[264] ci salvammo.
76. La stessa notte, mentre ero a dormire,
il conduttore venne e ci svegliava,
che a lavorar tutti si deve ire;
e mentre ci levian[265] lui ci aspettava
e nell’istante bisognò partire,[266]
sì, per pulir la strada che ingombrava
la molta terra che coperta avea,
e il tren passar per certo non potea.
77. Tutta la notte si lavora e a giorno
il tren liberamente può passare.
Verso le carra[267] poi si fa ritorno,
che il caffè tutti possino[268] pigliare;
preso il caffè, sensa nessun soggiorno
col volcktren si torna a lavorare.[269]
Passati alquanti giorni, ognun volea
saper quanto la notte dato avea.
78. Sapete bene che un’usansa in questa
region si trova che mi è assai garbata:[270]
chi lavora di notte o pur di festa
una paga maggiore gli vien data.
Ora noi tutti saper si vuol questa,[271]
e quanto quella notte sia pagata.
Rispose il bosso che gliera[272] lo stesso
quanto si guadagnava il giorno appresso.
79. Subito nacque un grande mormorio
e in breve tempo una bella questione:
“Ma questo non è giusto, giurammio!”[273]
diceano al bosso diverse persone.
Di lavorar si smette e sensa oblio
tutti al carro si va con confusione,[274]
fuori che dieci del napoletano,
e un altro ancora, che l’era toscano.[275]
80. Mezzo quel giorno e tutto l’altro ancora[276]
noi si sté tutti sensa lavorare,
che dalla[277] bile ognuno si divora
per un’azione che ci venne a fare
il sotto bosso, che il dì di buon’ora
a Miles City se ne volle andare
per far degli interessi a suo vantaggio,
sicché noi ci perdemmo di coraggio.
81. Il giorno dopo, come peoroni,[278]
quasi tutti si torna a lavorare,
perché noialtri cornuti non sian buoni:[279]
avendo i figli da dargli mangiare
tutto s’ingolle,[280] perché le ragioni
del dego[281] non si stanno ad ascoltare;
e ancora essendo di paese strano[282]
vien fatto quel che vuol l’americano.
82. Dunque meglio è star zitti e lavorare
in questi posti di sesso gentile;[283]
ma in breve tempo ci convien tornare
in quel paese simile a l’aprile,
tutti contenti al solo rammentare
quel nome di Fallon grazioso e umíle.
Si parte e là si ariva assai contenti,
e si lavora sensa complimenti.
83. Due giorni dopo la nostra allegria
venne cangiata in un sommo dolore,[284]
perché la sera stessa si partia
e a Tusler si ritorna – oh, che rancore![285]
Colà si giunse ben tre giorni pria
di quello della paga, e il conduttore,
scorsi i tre giorni, tutti ci avvisava
che a Miles City il pagator pagava.[286]
84. Veloci tutti come una saetta
si monta in treno, e là ci conducea.
Giunto al paese, me ne volo in fretta
una lettera a impostar che scritta avea.
Vi misi dentro in quella un bel vaglietta[287]
di lire quattrocento, e poi corea
di nuovo la mia cecca[288] a ritirare
che, dopo avuta, la volli cambiare.
85. Poscia io me ne torno a lavorare,
ma l’era un caldo da un poter soffrire,
e a molti a piedi gli toccò tornare
perché qualcun si volle divertire.[289]
Questo l’è bello, per chi lo può fare,
di divertirsi un po’ pria di morire,
ma a me non tocca questa cosa bella
perché ho da empire più di una scodella.
86. Quando uno si contenta del suo stato,
o bene o male ch’egli si ritrova,[290]
il mondo a lui gli sembra bello e grato
quant’un che in mezzo alle ricchezze cova.[291]
Ora noi tutti dopo aver cenato
si[292] giunse propio una sì trista[293] nuova:
che fatto recca[294] il passeggeri avea
e noi tutto sul luogo si corea.
87. Il luogo ove successe la disgrazia
era men di due miglia a noi lontano,
ma il Creatore oprò una bella grazia
perché ognuno restò ben salvo e sano.
La vista a rimirar mai non si sazia[295]
il fatto che teror fea di lontano,
vedendo quella macchina sdraiata
da un lato e quasi tutta rovinata.
88. Oltre di quella ancor cinque vagoni
si ritrovano là mezzi sfasciati,
ma in men di un’ora i nostri caporioni
ci avean là più di cento radunati.
Chi lavora col lume e chi a tastoni,
ma più di mezzi si erano sdraiati,
chi per dormire e chi per riposare.
Alfin si vide l’alba ritornare.[296]
89. Appena l’alba ebbe fatto ritorno
che tutti si lavora con coraggio,[297]
e ancor non era terminato il giorno
che libero era reso quel passaggio:
tutto ne fu levato in quel contorno,
ma la macina[298] ne restò in ostaggio[299]
di quella catastrofe,[300] e poi parea
ch’ella piangesse quel che fatto avea.
90. Il dì seguente anch’essa fu levata
e poi mandata alla riparazione.[301]
Ora di dirvi chi ebbe causata
quella disgrazia è propio mia intenzione:
era un lembo di terra giù cascata
dall’alto di quella trincerazione,[302]
che un pezzo della strada ella ingombrava
e,[303] giunto il treno, fuori lo mandava.
91. La macchina, sortita dal binario,
il viso[304] picchia forte da una parte,
poscia dall’altra come un dromedario,[305]
poi da questa ritorna e forte batte,[306]
alfin[307] si ruppe, e lì fermò l’incario[308]
che avea quel macchinista; e poi con arte
telegrafico ufficio fu formato
che avea corispondensa da ogni lato.
92. Tutto questo durò per un sol giorno,
come vi ho detto, e poi tutto è finito.
Ma noi che fatto già si avea ritorno
al solito lavoro stabilito,
si lavora contenti perché il forno
pan tutti i dì ci dà fresco e squisito.
E le cansonatur[309] vanno al galoppo
per chi del pan tra[310] lor mangiava troppo.
93. Or tutti i giorni gran question nascea,
sempre in cansonatura, siamo intesi,
perché la ghenga già si componea[311]
di gente nata di tutti i paesi;
e poi badate quel che un dì facea
un nostro socio: dopo ch’ebbe presi
sessanta soldi allor giù si gettava
dentro una fanga e tutto si sporcava.[312]
94. Dopo di questa un’altra ne facea,
ma prima il nome di questi vo’ dire:
è Danïel Lencioni, e ivi tenea
un suo cugin che insieme era a dormire;
un dì si corucciorno e lui[313] prendea
tuta la roba e comincia partire,[314]
ma l’imbottito[315] non sa come fare,
e l’uno e l’altro comincia a tirare.
95. Facendo a tira tira, alfin si schianta
quell’imbottito, e in terra ambedue vanno,
si rizzan poscia e ciascheduno agguanta
tutti i frantumi e una bardoria[316] fanno;
poscia si dan la mano, e poi[317] con quanta
concordia i due cugini se ne stanno.[318]
Ma or sentite, una sera, che vuol fare
con un legno quel letto tramezare.
96. Sempre di nuove questi ne facea,
ma state attenti a questa che l’è bella:[319]
un gran diverbio tra di lor nascea,
dicendo : “Il lume tien troppa fiammella”,
e questo Danïel gli rispondea
dicendo ch’era molto debol quella,
e l’asseriva e ancor questi giocava[320]
che quella fiamma con il cul spegnava.[321]
97. Subito gli fu fatta una fischiata
da tutti e poi “Bugiardo!” ognun dicea.
Fu la candela presto preparata
e intanto lui i calsoni si traea;
si mette in posizione… oh! udienza grata,
sentite quel che fa quell’assembrea:[322]
si mette in posizion, ma poi si rizza
sentendo il lano[323] suo che molto frizza.
98. Anche questa vo’ dire, e poi tralascio,
ché se le avessi tutte a raccontare
solo si carta ne anderebbe un fascio,
a voler tutto quanto rimembrare.
Questo Lencioni un dì, trovando un cascio[324]
di carton,[325] dentro vi volle cacare,
poi la coprì dicendo, come tizio:
“Non tremo più perché ho trovo[326] il giudizio.”
99. Coperta ch’egli l’ebbe,[327] e con ragione
perché a nessuno la vuol far vedere,
ma un pontigian,[328] chiamato Bigongione,[329]
era forte curioso di sapere[330]
quel che vi fosse dentro; il balogione[331]
la bocchise[332] pigliò, poi giù cadere
la fa, perché le mani si è smerdato
e noi si ride forte e a tutto fiato.
100. Tutto quello che ho detto lo fé un solo;
quell’altre un[333] posso, ché la carta manca;
ma dirle le potrei a stuolo a stuolo
tutte quelle che han fatto in questa branca.
Ma ad altre cose voglio andar di volo
perché di queste la mia penna è stanca:
adesso tornar voglio sul sentiero
del mio racconto, e dir vi voglio il vero.
101. Ora noi essendo un giorno a lavorare
al solito lavor che si facea,
una micina[334] si vide arivare
di gran carriera, e via ci conducea.
Delle traverse ci fan caricare,
poi delle verghe, e quindi via corea,
e non sapendo dove ci portava
alle cara[335] si giunse e si fermava.
102. Si prende un po’ di pane e si rimonta
sulla macina ch’è pronta a partire
e per la strada ne[336] dimando, e ad onta
di un uomo[337] il fatto si venne a capire,
e mi fu detto, assai con voce pronta,
che un treno merci… e più non volle dire;
ma volea dir che recca[338] fatto avea,
e intanto noi sul luogo[339] si giungea.
103. Discesi tutti dai vagoni, intanto
la catastròfe a veder volli andare,
e lì d’intorno, ad un vagone accanto,
di molta gente vedeo rufolare.
Anch’io mi accosto e con destrezza agguanto
sigari tanti che poteo fumare
tre mesi interi come più mi aggrada;
ma tempo è omai che a lavorar ne vada.
104. Già molta gente colà si ritrova
che pria di noi[340] v’erano arivati,
e i capi gridan che ciascun si muova,
ma molti e molti stavan rimpiattati
e ognuno cerca di farsi una cova,
sì, per gli oggetti che aveano rubati,[341]
che tutto quel che può ciascuno abbranca,
ché in quel disastro niente non ci manca.
105. In pezzi erano andati sei vagoni,
di oggetti assai ripieni di ogni sorta:
lì vi era scarpe, calse e pantaloni,
dentro alle casse che ciascun trasporta
in un ammasso,[342] dove i caporioni
messo avean sentinelle a far la scorta,
con la consegna che ciascun guardasse
la roba e che nessun si avvicinasse.
106. E l’altra gente tutta lavorava,
chi per suo conto e chi alla compagnia;
sempre chi può qualcosa grapolava,[343]
caffè, sigari ed altro, e andava via
ed al suo covo[344] quegli la portava;
e poi ritorna sulla ferovia
un poco a lavorar, poi torna in fretta
a prender, s’egli può, qualche cosetta.
107. Chi rivolveri prende e chi cappotti
e chi da donna piglia una gonnella,
chi trapani o rollette[345] e chi panciotti,
e chi di lana chiappa una flanella,[346]
simili tutti come agli ugonotti[347]
che entraron dentro a don Abbondio[348] in cella:
qui ruba il grande e ancora il piccolino,
il riccone, il plebeo e il poverino.[349]
108. Tutti si prende, e chi non prende è quello
che assolutissimamente un può pigliare;[350]
e la gran roba ch’era in quel flagello[351]
in mille carte non potrei contare;[352]
ma molti e molti restano al tranello,
ché quando a casa l’ora fu di andare,
vanno a pigliar la roba già impiattata[353]
ma trovano che un altro[354] l’ha pigliata.
109. Ora il lavoro essendo terminato
si monta in treno e poi si fa partita;
ma il rodomastro al bosso avea ordinato
che dieci ne rimanga e sia finita.
Si ariva al carro e quando hemmo[355] cenato
quei dieci intanto il Lorenzini[356] invita,
ma quasi tutti ci voleano andare,
allora una bugia volle inventare.
110. Era il sabato notte, e il dì vegnente
chiunque andar potea a lavorare,
ma il Lorenzini inventa immantinente:
“Chi va stanotte, diman non può andare.”
Allora quasi tutta quella gente
si ritirava, sol per guadagnare
uno scudo e quaranta d’avvantaggio,[357]
sicché ognuno si perde di coraggio.
111. Ma, nonostante,[358] il numero si forma[359]
e poi si parte a mezzanotte in punto
ed alla catastròfe noi si torna,[360]
che in men di un’ora colà ne fui giunto.
Ora noi tutti si seguiva[361] l’orma
del rodomastro, che alla fin si è assunto[362]
presso un gran fuoco e presto si addormenta;
e noi qualcosa di trovar si tenta.
112. Qualcosa si trovò, ma piccolesse,
perché v’era dei fuochi a custodire
e che la fiamma mai non si spegnesse,[363]
sicché la notte mai potei dormire.
Questo era quello che a me più piacesse,[364]
cercando la mia tasca progredire
di quella roba che colà era andata
in perdizione e mezza fracassata.
113. Così facendo, intanto fé ritorno
l’alba e con essa[365] una gran nebbia fina,
e dopo questa comparisce il giorno,
ma cupo sì che il tempo piovvicina;[366]
quindi si parte come un liocorno
che vada al bosco, essendo alla marina
già stato,[367] e fugge con la preda in bocca
e guai a quella e a quello che lo tocca.[368]
114. Quando alle carra[369] noi fummo arivati
tutti il caffè ritornan da pigliare,
e quasi tutti erano preparati
per andar sulla strada a lavorare.[370]
E noi che l’eravamo[371] assai bagnati
ci disse:[372] “Presto, andatevi a cambiare
e dopo, se ancor voi venir[373] volete
a lavorar con noi, certo potete.”
115. Allora nacque un grande mormorio,
tutti imprecando sopra Lorenzini:
“Bugiardo, bugiardone, iniquo e rio!”
diceano quasi tutti i fiorentini;
ma lui diceva: “Qui comando io!
E statevene zitti, o ragazzini,
se no altrimenti vi faccio restare
tre giorni al carro sensa lavorare!”
116. Aggiunse poscia che di tutti quanti
eran colà, paura non avea,
e che una ghenga l’era[374] di ignoranti,
che solo lui sapea quel che facea.
Allora uno di quelli si fa avanti,
certo Ghimenti, e così gli dicea:
“Tu dici che non temi di nessuno:
se bianco sei, ed io ti faccio bruno!”
117. Si tacque allor Luigi sull’istante
e l’altro disse: “T’insegno parlare,
che avanti di esser come te ignorante
ancor mille anni la devo studiare.”[375]
La question cessa, e ognuno a passo errante[376]
se ne van mugolando a lavorare.
Ma Lorenzin batté la ritirata,
perché per lui l’era trista[377] giornata.
118. Tre giorno dopo quella gran disgrazia,
ed era appunto un giorno che pioveva,
e non essendo la mia mente sazia,
sul luogo[378] del disastro io me ne andeva[379]
insieme ad altri tre, sperando grazia,
con un carello, e forte si coreva;
ma quando noi laggiù fummo arivati
tutto han bruciato, e si restò gabbati.
119. Mi accompagnava Paolo Giometti,
di Massa Macinaia, a me vicino,
e del Gallen Angelo[380] Lazzaretti,
e l’altro l’era propio un mio cugino,
certo Del Carlo Andrea. Ed i progetti
essendo andati a vuoto pel bottino
che si sperava, si decise andare
a Miles City le cecche[381] a cambiare.
120. Si monta sul carello immantinente,
e camminando più che si potea,[382]
e alla stazion si scende prestamente
e poi verso la banca si correa.
Con tutto questo non si fece niente
perché il banchieri[383] già serrato avea
e, non potendo far ciò che si vuole,
noi si riparte che già è perso il sole.[384]
121. Come il can che ne va[385] dietro alla preda
per lungo tempo, e poi non può pigliare,
e che poi stanco ed anelante rieda
sensa alcun frutto del suo camminare,[386]
lo stesso fu di noi, e ognun pur creda
che questa è verità sensa fallare;
che quando nel vagone fummo entrati
eramo[387] d’acqua[388] e di sudor bagnati.
122. Lasciamo tutto questo, e andiamo avanti:
si cena e sopo a letto ce ne andammo
e la mattina dopo, come erranti,[389]
al solito lavoro ritornammo;
e poscia, dopo non so giorni quanti
di nuovo di dimora ci cambiammo[390]
e a Shirley ci porton,[391] ch’è assai vicino,
appena dieci miglia di cammino.
123. A Shirley noi si sta per quasi un mese,
non succedendo inconveniente alcuno,
fuori che il cuoco un dì, poco cortese,
si licnziò sensa avvertir nessuno,
dicendo s’egli un dì, messo alle prese,
“fossi a dover partir, dice taluno
che il passo[392] a me non mi verebbe dato,
essendo molto che un ho lavorato.”[393]
124. Questi tralascio, e viene a lavorare,
ed era questo un lunedì mattina.
Ma intanto un altro vi dovea restare
per tutti quanti a farne la cucina:
“Se nessun resta, non si può cenare
stasera”, si diceva una diecina;
uno alfin resta, per un dì soletto,
certo Moschini, Tirapiani detto.
125. La sera si licenzia e un altro allora
per far cena e mangiare entrar dovette,
che dopo nove giorni sortì fuora
per causa di diverse parolette.
Questi sortì, ma ve n’è un altro ancora
che vi entra a preparar le porsioncette.[394]
Quel che sortì si chiamava Seghino,[395]
e quel che vi entra ha nome Valentino.
126. Questi l’è quello, se vi ricordate,
che facea il pane e che gi cascò il forno;
ma, per cucina, voi non dubitate
che da per tutto può suonare il corno:
è destro, coraggioso come un frate,
rassembra[396] un paladino di Livorno.[397]
Lasciamo questi a fare il suo mestiere,
e ragioniamo un po’ del panattiere.
127. l panattier, Malfatti Valentino,
anche lui da far il[398] pan si licenziava,
perché più non gli piace il matutino,[399]
e lascia la baracca e se ne andava;
allora si pregò Guidi Luigino,
il panattieri[400] vecchio, ed accettava
ma con le stesse condizion dell’altro
perché di tutti non vuol esser scaltro.[401]
128. Tutto si accorda, sensa più parlare,
e il bordo a gonfie vele via cammina;[402]
ma un pan per una coppia io fo passare,[403]
ché il fin della campagna si avvicina.
Ma qualche mese[404] indietro or vo’ tornare
e Tu mi soccorrai, Madre Divina
del Buon Consiglio e dei Sette Dolori,[405]
acciò contentar possa i miei uditori.
129. Vi ricordate del famoso giorno
del ventiquattro luglio già passato,
che quasi tutti la sbornia pigliorno,
e il Lorenzini ributtò anche il fiato?
Ed io che a lavorare ero ritorno,[406]
dopo ch’ebbi la lettera impostato,
che per un mese sto aspettando ansioso[407]
che la risposta mi desse riposo.
130. Ben trenta giorni aspetto la risposta,
ma passan questi e non mi viene ancora;
par che il destino me lo facci[408] apposta
di farmi tribolar fin ch’io non mora.
E spesso spesso me ne vo alla posta,
ché le notizie aspetto di ora in ora;
ma ben passò più di sessantun giorno
che la risposta ancor non fa ritorno.
131. Piglio la penna, il calamaio e poi
la carta, e scrivo lacrimosa quella,
dicendo: “O moglie mia, perché tra noi
più non si scrive né si sa novella?[409]
Il mio dolor lo causate voi
che colà state nell’Italia bella,
non so se nel piacere o nel dolore:
quest’ultimo a pensar mi addiaccia il core.”
132. Finito ch’ebbi il foglio e sigilato
quel plico, a Tusler me ne volli andare
ad impostarlo, ed ero accompagnato
da tre compagni ansiosi di guardare.[410]
Era appunto quel giorno dedicato
a San Michele, e soleo festeggiare,[411]
che feci quella triste giratina
e alla scoperta di una nuova mina.[412]
133. Fra i miei compagni vi era un piemontese,
Pietro Perini per nome chiamato,
e vi era ancora quel famoso arnese
Luigi Lorenzini nominato;
or mentre si tornava dal paese,
con Massimo Giometti accompagnato,
quel piemontese ci volle portare
la nuova mina tutti a perlustrare.[413]
134. Era questa miniera a piè di un monte,
ma così a picco che mettea paura,
e più del piede in fuori avea la fronte,
che rassembrava ad un sepoltura.[414]
Noi, coraggiosi come Rodomonte
che i morti accatastò presso alle mura
della bella Sion contro i cristiani
per liberar, s’el puole, i suoi pagani,[415]
135. ugual non si fé noi ma poco meno.
Col picco[416] in man si principiò lo scasso,
ma tempo non variò quanto un baleno[417]
che sopra a noi si sente un gran fracasso:
era questo un gran lembo di terreno
che con tanto furor ne venne a basso.
Questa è la seconda volta che la vita[418]
mi salvò certo la Bontà infinita.[419]
136. Ché se presente Iddio non fosse stato
almeno tre ci si dovea restare,
perché quell’altro si era allontanato
un poco, credo i suoi bisogni a fare.
Ringrazio Iddio, che sempre mi ha aiutato,
che così presto si poté scappare;
ma ritentarla noi si volle un poco;
quindi si cessa[420] e si abbandona il loco.
137. Si parte da quel luogo, e a ripensare
a quel che in questo mondo m’intravviene,
e che la vita la poteo lasciare
fra spasimi sì atroci e atroci pene…
ma adesso essendo l’ora di mangiare
si mangia sensa bere tutti insieme,
e quando di mangiare ebbi fnito,
m’accorsi che aveo perso l’appetito.[421]
138. Mangiato ch’ebbi, assai lieto e contento[422]
insieme ai miei compagni[423] fui partito,
perché la mina che promette argento
in un monte di terra è convertito.[424]
Allor si va di nuovo a un gran cimento,
una pietra a spaccar sol denamito,[425]
che rotta quella a casa ritornammo
ed era notte quando noi arivammo.
139. A Shirley[426] noi si sta diversi giorni
e poi a Tusler si ritorna ancora:
ci fan girare come capricorni,[427]
che pace non si trova neanche un’ora
e poi – sentite?-[428] dopo quattro giorni
di nuovo ci rifan cambiar dimora
e a Shirley si riportan[429] con i cari,
che peggio sian diventi dei zingari.[430]
140. Quindici giorni a Shirley ci fermiamo
e poi di nuovo parton li zingheri[431]
e ad un paese lì vicini andiamo
che per il nome vien chiamato Terri.[432]
Lì assai comodità più ci troviamo
che a Shirley, e ci si sta[433] più volentieri;
ed una sera dopo lavorato
un plico a me mi venne consegnato.
141. La lettera ricevo con contento
e insieme a quel contento vi è il dolore,
e il core in petto palpitar mi sento
pensando a ciò che quella potrà espore.[434]
Strappo la busta e gli occhi caccio drento[435]
e in gaudio tutto cambia il mio dolore[436]
e leggo in cima : “Caro mio conosrte,
sian tutti fieri.”[437] Oh,[438] inesorabil sorte!
142. Ecco, uditori, un giorno di allegrezza,
ecco, uditori, un giorno di conforto,
ecco, uditori, la più contentezza[439]
che un uomo può provar pria che sia morto;[440]
di gaudio, di conforto ne ho l’ampiezza,[441]
da morte a vita mi par di esser sorto.
Or son contento, ve lo posso dire,
basta una volta prima di morire.
143. Il giorno del contento mio fu il sei
del mese di novembre del prim’anno
del secolo ventesmo, e crederei
d’esserne certo s’io già non m’inganno;
ma il dieci detto dirvi ancor potrei
che un mio compagno si fece un malanno,
ché mentre questi del[442] carbon pigliava
un pezzo cadde e un piede gli schiacciava.[443]
144. Ora in quel giorno stesso essendo giunto
nella stazione un treno di carbone,
e avendolo finito per l’appunto,
Pietro Perini monta sul vagone,
ne prende un pezzo e poi, vedendo il punto
che in quell’istante non c’era persone,[444]
il carbon lascia e mentre giù cadea
Ghimenti appunto il piede là mettea.[445]
145. Il pezzo cade e giù cadendo forte
sopra di un piede gli venne a picchiare,
che s’egli era più avanti – ahi trista sorte! –
un male assai maggior potea causare:
ne son sicuro, gli dava la morte,
ma Iddio pietoso lo volle aiutare;[446]
ma nonostante[447] il mal fu grave assai;
che andasse all’ospedal lo consigliai.
146. Due giorni dopo il misero partiva
e malcontento all’ospedale andiede.
Luigi Lorenzini lo seguiva,
perché servirsi non potea del piede.
Un poco lo accompagna, e poi fuggiva,
e l’ammalato, quando ciò si avvede,
resta smarrito e resta malcontento
perché non si aspettava il tradimento.[448]
147. Or quel che[449] avvenne dopo dir non voglio,
ché troppo lunga sarebbe la cosa,
e stando zitto al certo non m’imbroglio,
ché la faccenda l’è troppo ingiuriosa;
e su di questo chiuder voglio il foglio
e parlar d’altro la mia penna è anziosa.[450]
Solo si seppe che a S. Paulo andiede
e da quello a Chicago batté il piede.[451]
148. Torniamo al bel racconto e tralasciamo
ciò che poco m’importa far palese;
e, come pria vi dissi, noi eravamo
di Terri a lavorare nel paese,
ma presto di dimora ricambiamo
e si ritorna al luogo[452] assai cortese,
già tante volte detto, di Fallone,
velocemente come in un pallone.[453]
149. Quindici giorni si lavora
ma poi di nuovo ci rifan cambiare;
di giorno poso non si trova[454] un’ora
e poi di notte ci fan camminare.
A Shirley si ritorna a far dimora,
sulla ferrovia[455] sempre a lavorare;
ma udite ciò che avvenne una tal sera
mentre si torna che già notte era.
150. Mentre noi del lavoro ritorniamo
con i carelli sulla ferrovia
a un’or di notte un treno riscontriamo
che come un toro verso noi venia.
Noi libero il passaggio gli lasciamo,
poi si rimonta per andarne via
ma appena fatto un poco di cammino
una macchina scorsi a noi vicino.
151. Veloci come un fulmine si scende
e subito il carello si levava,
ma tre che erano indietro in piena prende
che quasi tutti in pezzi in pezzi li mandava.
Cose son[456] queste infami, atroci e orende
ma quella gente presto giù saltava:
tutti si salvan, ciò piacendo a Dio,
perché fur lesti, ve lo dico io.[457]
152. Come vi ho detto, si salvaron tutti
fuori che uno che giù nel saltare
una gamba si sforsa – ahi, casi brutti![458]
Pensando a quel[459] che potea capitare…[460]
meglio sarebbe star nel mezzo ai flutti
che star vicini ai treni a lavorare.
E poi sentite ciò che avvenne poi
a quattro sicilian vicini a noi.
153. Or questi appartenevano a una squadra
che pochi giorni fa se n’era andata,
ma di restare a questi ben gli aggrada
in questi posti a passar l’invernata.
Spediscono la roba che sen vada
al luogo[461] destinato di fermata,
ma quando furon giunti allegramente,
trovan la roba e non vi trovan niente.
154. Allora questi presero un carello
per andar la sua roba a ricercare
e sul binario andavan giù bel bello
forse, non so, tra[462] loro a chiacchierare;
ma il treno che venia veloce e snello
dietro una curva li venne a chiappare.
Allora questi quattro disgraziati
giù dal carello ne furon saltati.
155. Ma per tre soli fu questa gran sorte,
perché fur destri assai giù nel saltare,
ma l’altro invece vi trovò la morte,
ché il tren sopra di lui venne a passare:
lo arrotola, lo strizza a più ritorte,
che il sangue assai lontano fé schizzare
e tutte le altre membra fracassate…[463]
Che morte fosse quella or voi pensate.
156. Tralascio questo perché il cuore mio
sta singhiozzando dal gran dispiacere
e alla mia storia ritornar vogl’io,
ché sopra a tutto questo è mio dovere.
Essendo a lavorar vicini a un rio,
a fare un fosso[464] che dovea tenere
dell’acqua, ma il gran freddo, a dirvi il vero,
marcava trentasette sotto zero.[465]
157. Ma poi alla fine noi fummo obbligati
di dover[466] quel lavoro abbandonare
perché il gran freddo i piedi avea diacciati[467]
che ritti più non si poteva stare;
e quando nel vagon fummo arivati
li femmo noi ben bene stropicciare
e il sangue allora riprese il suo corso
e il freddo a tutti si sortì[468] dal dorso.
158. All’una in punto ci richiama il bosso
a lavorar, ché questo è suo dovere,
ma ciascun disse: “Io venir non posso,
e tutto il giorno il fuoco vo’ godere.”
Allor si volge a me con occhio grosso,
disse: “Vieni con me, mi fai piacere,
ché un mio compagno debbo andar a trovare[469]
per certi affari, e con lui vo’ parlare.
159. Si parte e poi si va dov’egli vuole
e poi la sera noi si fa ritorno,
e a dirla schietta e con poche parole,
di molto freddo si soffrì quel giorno.
Si crede di partir – ma non si puole –[470]
per andarne a Glendive a far soggiorno,
ma ancor tre giorni lì bisognò stare
sensa lavoro a bevere e a mangiare.[471]
160. Dopo tre giorni si fece partenza
per quel paese da tanti bramato,
e là ci pagan tutti a preferenza[472]
quanto ciascuno aveva lavorato;
e la mattina dopo, o cara udienza,
solo con altri quattro fui restato
e gli altri tutti se ne andaron via,[473]
ciascun dove gli piace e gli desia.[474]
161. Ecco, uditori, la campagna è fatta,
ma ancora un’altra ne ho da incominciare,
e scuserete la mia testa matta
se qualche error, scrivendo, venni a fare.
Tutto vi ho detto e niente non s’impiatta;[475]
ma adesso un poco mi vo’ riposare
e quando mi sarò ben riposato
dell’inverno dirò quel che ho passato.
FINE DEL CANTO 2°[476]
CANTO 3°
L’INVERNO[477]
1. O musa, tu che di caduchi allori
ne circondi la fronte in Elicona,
e solo tu che in fra i beati cori
hai di stelle immortali aurea corona,
tu spira al petto mio felici ardori,
tu rischiara il mio canto e tu perdona
se il canto che io ne vo[478] per cominciare
come tu brami non verrò a formare.[479]
2. Sentiste, amici, nel canto passato
la mia campagna fatta nell’estate;
ma or quella dell’inverno ho incominciato:
bisogna che anche questa voi ascoltate,
e sentirete quello che ho incontrato
se bene attenti attenti tutti state;
e il tutto vi dirò, come poss’io
e con l’aiuto dell’eterno[480] Iddio.
3. Era il diciotto dicembre e già partiti[481]
erano i miei compagni ed io restato
– del Novecento un con mille uniti
era il millesimo allor da noi segnato.[482]
Con tutto il necessario premuniti
e la sera Glendive ebbi lasciato,[483]
e mentre il tren cammina che spaventa
un mio compagno ruma la polenta.
4. Rumata la polenta e preparato
un buon fricò[484] che al dente a ognun dicea,[485]
si mangia allegri, ma per ogni lato
si barcollava perché il tren corea;
e quando ognun di noi ebbe cenato
di andare a letto a ciaschedun premea
per riposarsi, ma il gran tentennare
del treno,[486] mai potemmo riposare.
5. E, camminando asai velocemente,
a Tusler quasi a giorno si arivava
e poco dopo il bosso, assai prudente,
se lavorar si volea ci dimandava.[487]
Gli fu risposto assai graziosamente
che sì, e presto allor si preparava
il necessario per poter mangiare
e poscia ce ne andammo a lavorare.
6. E colà giunti assai velocemente
ci metton dei vagoni a caricare
di ghiaia, ma diacciata era talmente
che appena appena si potea scavare.
Si caricava questa espressamente
servendo a un ponte[488] che dovevan fare,
poco distante sulla ferrovia,
ché l’acqua il terrapien guastato[489] avia.
7. E lavorando assai di buona voglia
si giunse intanto al memorabil giorno
che il gran Figlio di Dio lascia la soglia
del cielo[490] e nasce qual bambino adorno;[491]
di gran pensier[492] mi diedero assai doglia,
che in mille pezzi il cuore mi straziorno,
e specie quando a desinare andai
la mia famiglia tutta rimembrai.
8. Pensate, o miei lettor, qual fosse il mio
dolore immenso[493] a tale rimembranza,
ché lontan molto mi trovavo io,
sette e più mila miglia di distanza,
in un deserto, là, vicini a un rio,
con una bile al cor grande abbastanza,
pensando che quel dì potevo stare[494]
colla famiglia insieme desinare.
9. Ma la miseria mi ha così costretto
di allontanarmi[495] dalla patria mia
e ancor dalla famiglia, poveretto;
ma quel che vuole Iddio voglio che sia.
Il tempo passerà, sia pur negletto,
e se a Dio piace e alla Vergin Maria
quel dì verrà che dovrò ritornare
la mia famiglia tutta ad abbracciare.
10. Lasciamo questo che molto addolora
il cuore mio, e d’altro vo’ parlare:
ancor due giorni colà si lavora
e l’altro poi ci fanno camminare;
si parte sulla sera, e tarda è l’ora,
e la mattina si venne arivare
là dove tutti ci ebbero pagato,
e ancora dai miei compagni abbandonato.[496]
11. Quattro giorni a Glendive ci fermiamo
della cenere in gara[497] a caricare,
ma sol due giorni quivi lavoriamo
e gli altri due ci fanno riposare.
Il tre gennaio il paese lasciamo
e a Wibaux ne andammo a dimorare:[498]
dalla mattina ch’eramo[499] partiti
si giunse sulla sera, assai sfiniti.
12. Messe le cara[500] a posto e preparato
qualche cosa alla meglio, noi cenammo
e dopo un poco che si ebbe cenato
a letto tutti quanti ce ne andammo;
e la mattina, quando fui svegliato,
noi tutti[501] a lavorare andar ci fanno
di Beach nel paese, che è più avante,
dai cari undici miglia e più distante.
13. Or tutte le mattine che si andeva[502]
a lavorar, la sera si tornava
ai cari; ma il gran freddo che faceva
il bosso a noi un vagon ci preparava[503]
tutte le sere quando si smetteva,
e la mattina ancor quando si andava:
su quel si monta tutti allegramente,
si sta[504] seduti e freddo non si sente.
14. Quanto son disgraziato in questo mondo!
Eppure Iddio mi assiste e ancor mi aiuta,
perché del viver mio non sono al fondo:
la morte non mi vuole e mi rifiuta.
Questo lo dico bello chiaro e tondo
per una grazia che dal cielo ho avuta.
Se voi pazienza avrete di ascoltare
sì come l’ebbi vi verrò a narrare.
15. La sera dal lavoro nel tornare
dell’undici gennaio, in conclusione,[505]
la macchina davanti[506] camminava
e dietro due vagon con le persone;
nel mezzo vi era il nostro, e dietro stava
del conduttore il suo propio vagone,
e così camminanado come il vento,
che a tutti quanti noi mettea spavento.
16. Nella stazione di Wibaux ci era
un treno merci pronto per partire,
na il nostro, che via andava di cariera,
se lo vedesse non vi saprei dire,
perché lì appunto una gran curva vi era;
e il macchinista, vedendo apparire
quel tren davanti[507] a sé molto vicino,
dà tutto freno per troncar il cammino.[508]
17. Oltre del fren, la valvola girava[509]
ma poi, vedendo che non giova a niente,
dell’incontro[510] il segnale presto dava,
che si salvasse se potea la gente;[511]
e nell’istante giù dal tren saltava;
ma noi di dentro, non vedendo niente,
si sente un colpo così forte e a ardito
che ne rimasi mezzo sbalordito.
18. Or non sapendo quel che fosse stato
tutti a vedere si volle sortire:
la macchina corendo avea picchiato
nel treno ch’era lì pronto a partire.
Miracolo stupendo e immeritato,
perché noi tutti si dovea morire;
ma, Dio volendo, tutti ci salvammo,
sol ricevendo qualche lieve danno.
19. Lettori, se con me voi foste stati
vicini a quell’ammasso di ruine,
gli occhi col pianto avreste voi bagnati
pensando al caso dal fondo alle cime:
cinque vagoni tutti fracassati
e la macchina nostra – oh ciel sublime! –[512]
rotta anche quella e tutta rovinata,
e fuori dal binario era andata.
20. Fu grazia del Signor, che consigliava
il macchinista in quella tal serata,
ché la macina[513] avanti ne portava,
ciò che di rare volte l’avea usata.[514]
Se per disgrazia avanti si trovava
il vagon nostro, oh,[515] sera sfortunata
ch’era per noi, mseri disgraziati,
che là si rimanea tutti schiacciati!
21. Misera moglie mia, miseri figli,
misere figlie ancora, oh quale stato,
oh quai dolori ancora, oh quai bisbigli[516]
la mia disgraziavi avrebbe apportato!
Son certo, sensa pan, sensa consigli…
Ma Dio ringrazio che mi ha liberato,
e posso dir la tersa volta sia.
Di nuovo grazie a voi, Gesù e Maria.[517]
22. Se il Signore in quel giorno non vegliava
sopra di me, l’era bella e finita:[518]
il mio corpo a Wibaux restava
e più non esisteva la mia vita
e al suo destino l’anima ne andava.[519]
Ma l’ora ancor non era stabilita,
e in questo mondo vivo sempre ancora,
soffrendo sempre fino ch’io non mora.
23. Sempre ringrazierò il mio Creatore
e ancor la Madre sua con tutti i santi,
e ancora prego voi con tutto il cuore
con me di ringraziarlo tutti quanti.[520]
Questo or tralascio perché gran dolore
mi rende a sol pensarci, e tiro avanti
l’istoria mia che è tanto disgraziata,
che poco fa l’avevo tralasciata.
24. Or vi dirò, dopo successo il fatto,
cosa si fece e cosa ci fan fare:
di ripulir[521] la strada in breve tratto
si deve perché il tren deve passare.
Dietro di noi se ne veniva ratto
il passeggere,[522] ma lo fan fermare
telegrafando alla stazion vicina
e dando avviso della gran ruina.[523]
25. Anche a Glendive fu telegrafato
che presto parta e venga l’occorente
per levar la macina di quel lato,
ché niente a quella non può far la gente.
Avuto avviso, parte ogni apparato,
che in men di un’ora colà fu presente
dove il bisogno urgente la[524] chiedeva
e i suoi strumenti in opera[525] metteva.
26. Chi per levar la macchina lavora
e chi presso ai vagoni lavorava
ch’erano rotti, e poi vi dico ancora
che a tutti quelli il fuoco si appicciava;[526]
e vi posso asserir che in men di un’ora
colà cenere e ferro sol restava;
e la macina anch’essa fu levata
e a letto andammo a mezza la nottata.
27. Il dì seguente non fan lavorare,
ché giorno del Signore era quello;[527]
ma pure io non potetti riposare
ché il pan mi toccò a fare, poverello.
Di nuovo il lunedì ci fanno andare
a finire il lavoro al paesello
di Beach, e poi la sera noi partimmo
e a Glendive di nuovo ne venimmo.
28. Quivi una notte sola ci fermammo
e la mattina si riparte ancora
e al paese di Oit[528] ne andammo
le verghe a caricare di buon’ora;
due giorni soli quivi dimorammo
perché colà non si può far dimora.[529]
Si parte e a Tusler noi siamo tornati,
e un giorno quivi ancor ci sian fermati.
29. Quel dì finimmo sol di fare un fosso
che pochi giorni fa si era lasciato,
ma diacciato era quello a più non posso,
che appena appena si fu terminato.[530]
La sera a tutti noi ci disse il bosso
che a Miles City ci avrebbe portato;
allora ognun nel suo vagone entrava
e in men di un’ora colà si arivava.
30. Si cena e poi si dorme ed il mattino
le verghe si ritorna a caricare;
e il ferro vecchio, sia pur grosso o fino,
tutto quanto si deve noi pigliare;
poi si ritorna indietro pian pianino
e dove ferro vi è, deve fermare,[531]
il tutto raccogliendo; e poi la sera
si giunse a notte che già notte era.
31. Lì si passa la notte e il dì vegnente
tutti si torna al solito lavoro,
ma era un freddo così prepotente
che ci facea mugliare come un toro.[532]
Si caricava il ferro prestamente
e poi nel carro[533] al fuoco me ne coro;
e così, lavorando in furia e in fretta,
giunsi a Glendive a notte assai tardetta.
32. Quivi noi stemmo un poco a far dimora
perché delle fascine dovean[534] fare:
si va in un bosco e colà si lavora,
chi tagliando il legname[535] e chi a legare;
e quando del mangiar giunta era l’ora
tutti alle carra ci faceano andare
perché se quello noi là si portava,
mangiar non si potea perché diacciava.
33. Finite le fascine di tagliare,
e ancora tutte quando fur legate,
in sulla ferrovia le fan portare
perché sul treno vanno caricate;
e poi a Medora, sì, ci[536] fanno andare,
e là, vicini a un fiume, scaricate[537]
perché una serra far ci si dovea
dove la ferrovia l’acqua rodea.[538]
34. Dieci giorni a Medora noi si stiede[539]
finché quella gran serra fu finita,
e poi di nuovo si ribatte il piede[540]
e a notte oscura si fece partita;
e a far delle fascine si riandiede
là dove prima fu la nostra gita,
cioè a Glendive, dove noi eravamo,
ché tempo assai colà noi ce ne[541] stiamo.
35. Di febbraio era appunto il giorno otto
che a Glendive si giunse allegramente,
ma quando giunti noi fummo al diciotto[542]
una nuova ci giunse assai dolente,
che licenziar doveano di botto
venti persone della nostra gente;
ma io però non venni licenziato
perché degli altri fui più fortunato.
36. Dovete ben saper, cari uditori,
che quando la mia ghenga fé partenza,[543]
cinque sol si restò, ma cinque cuori
che un dell’altro non potea far senza;
ma il destino che sbuffa i suoi rancori[544]
contro del poverin con gran potenza,
due mi lasciorno il sedici gennaio,
e gli altri due[545] il diciotto di febbraio.[546]
37. Lettor, voi non sapete il caso strano
perché i due primi ne fecer partenza:
nel carro era con noi un capoletano
ch’era sordo e vivea di prepotenza.
Essendo questi due di Masserano,[547]
che nel Piemonte tien la residenza,
fuggir voglion da quel sordo malanno
e a noi con gran dolor l’addio ci danno.
38. Degli altri due sapete la cagione
che mi lasciorno e se n’andaron via.
Or certo si è compiuta l’intenzione
che già teneva la persona mia[548]
di andarne solo dentro uno squadrone[549]
di gente strana;[550] or sia quel che si sia,
ché son rimasto solo di toscani
in una ghenga di napoletani.
39. Or mi direte perché ciò bramavo;[551]
ve lo dirò se mi state ascoltare:
perché quand’io con l’altra ghenga stavo,
altro non si sentia che bestemmiare
e, sì, per questo sempre Iddio pregavo
che mi facesse da questa allontanare.[552]
La grazia ho ricevuta e ne son sazio,
con l’altre che sapete, e Dio ringrazio.
40. Io lascio fare Iddio che sempre bene
accomoda le cose a suo piacere,
e con paziensa[553] sopporto le pene,
ché il sopportarle è propio mio dovere.
Ma ritorniamo un po’ alle nostre scene,
ché il tutto a tutti voglio far sapere.
Giunti al tredici marzo intanto si era,
passava il tempo come primavera.[554]
41. Ma, a sera giunti, principiò a tirare
un vento forte che portava via
e tutti quanti ci facea tremare,
perché quello dal Norde[555] ne venia;
poco dopo principia a nevicare
e nell’aria rotando[556] si vedia
che il vento la bussava, e mai non cessa
la notte e il giorno e l’altra notte stessa.
42. Ben sessant’ore nevicando dura[557]
e questo è propio vero e positivo;
ma il quindici di marzo, a notte oscura,
forte sentii bussar mentre dormivo.
Era il bosso[558] e ci disse con premura:
“Alsatevi su, presto, che l’è arivo[559]
un telegramma che bisogna andare
un tren sotto la neve ad iscavare.”[560]
43. Si parte sull’istante e insiem con noi
portano i vagon nostri ove si abita;[561]
che fatte ventinove miglia poi
si giunse alla gran meta stabilita.
Crede[562] pur, o lettor, se creder vuoi:
io mi credevo di perder la vita[563]
ché il freddo, mentre noi si lavorava,
trentatre gradi sotto zer marcava.
44. La neve insiem col vento che venia
spesso spesso il respiro ci levava;
tre or si lavorò con agonia,
che il treno con tre macchine passava;[564]
si prese poscia noi la nostra via
e di nuovo a Glendive si tornava.
Ma il dì seguente a mezzogiorno in punto
un altro telegramma era a noi giunto:
45. che si fosse partiti prestamente[565]
per Mandan,[566] ché la neve sopravvanza
i cinque metri,[567] e non trovavan gente,
ché gente sì ce ne[568] volea abbastanza.
Ci fecero parti’[569] immediatamente
perché ci separava gran distanza:
distanza di duegensedici miglia
e il treno parte e corre[570] a sciolta briglia.[571]
46. Tutto quel giorno e poi la notte ancora[572]
si viaggiò, e l’altro giorno poi
di quattr’ore passata era l’aurora
che a Mandan con il tren si giunse noi.
Dai carri presto noi ne uscimmo fuora
e a lavorar si va peggio che i buoi[573]
per quella neve, e per tre giorni intieri
sempre ci toccò a fare quel mestieri.[574]
47. Lettor, chi non ha visto non ci crede,
ché a pensarvici solo fa terrore:
vi era un defizio[575] per tagliar la neve
spinto da quattro macchine a vapore,
e dietro a quello poi venir si vede
un altro colosseo[576] che deve porre[577]
la neve da ogni lato e ancor lasciare
la strada netta, e il tren poter passare.[578]
48. Come vi dissi, passati tre giorni
di quel lavoro tanto faticoso,
Mandan si lascia; e gli altri dì più adorni
credevo di passar con più riposo.
Di Sweet Briar[579] si va nei contorni
ad un lavoro assai più che schifoso:
ché delle pietre ci fan caricare,
che per tre giorni mi toccò sudare.
49. Era il martedì santo, e giorno ancora
dell’Annunziata Vergine Maria,
che si partì e lasciammo la dimora
di Sweet Briar e ce ne andammo via.
Si giunse a Dickinson che appunto un’ora
mancava per suonar l’Ave Maria,
a quel paese atroce, iniquo e infame
che l’anno scorso ci soffrii la fame.
50. Ma poco dopo si rifa partenza
e indietro si tornò dodici miglia
perché sbagliata avea la permanenza
il conduttore, che non si consiglia,
e a Gladston[580] si fa la residenza.
Ma nella notte stessa si scaviglia[581]
nel cielo una tempesta di gran vento
insieme colla neve e fa spavento.
51. Tutta la notte e il dì seguente ancora[582]
seguita il vento e ancora a nevicare,
che fuori star non si poteva un’ora
perché gran dubbio[583] vi era di diacciare.
E la mattina dopo di buon’ora
della rena si andiede a caricare;
e là si sta[584] finché si giunse intanto
al sabato che noi chiamiamo santo.
52. Dopo quel dì la Pasqua se ne viene,
e quella la passai lieto e contento.
Si mangia e poi si beve tutti insieme,
che il cuore in petto palpitar mi sento.
Ma alle tre in punto un telegramma viene
che partir si dovea nel momento
e andare delle verghe a caricare,
e poi a Mandan si doveva andare.
53. Si parte e intanto ad Ebron[585] si arivava
verso le cinque dopo mezzo giorno;
presto le verghe a caricar si andava
fino alle nove, e poi si fa ritorno
ai nostri carri, e intanto si cenava;
e la mattina dopo avanti giorno
si parte e, giunti a Mandan, ci fermammo
circa mezz’ora e l’ordine aspettammo.
54. L’ordine venne e l’ordine fu questo:
che là tre carra[586] si dovea lasciare,
che si sortisse e si facesse presto
perché tempo non vi era di aspettare
– annunzio a me fatale e insiem funesto –
però la roba si dovea lasciare
dentro dei carri perché il terzo giorno
ognuno al carro suo farà ritorno.[587]
55. Dal carro si sortì e sol si prende
per tre giorni la roba da mangiare,
col sol vestito indosso, già s’intende.
Si parte e ce ne andammo a lavorare
là dove l’acqua il suo gran piano stende,
ché per due miglia e più venne allagare
dov’era bassa quella ferrovia,
e un pezzo nuovo noi far si dovia.
56. Questo lavor distante si trovava
ventidue miglia da Mandan fetente;
e quando noi a quel luogo si arivava
ci ritrovammo sì di molta gente
che da una parte e l’altra lavorava,
acciò fosse finito prestamente;
ma l’acqua in quattro dì venne abbassare
che il tren, nuotando un poco, può passare.[588]
57. Era il quattro di aprile che la sera
il lavoro si lascia, e ritornammo
là dove tutta la mia roba era
che quattro giorni innanzi noi lasciammo.
Verso le dieci giunti, salto in terra[589]
e vo cercando il carro, ma l’affanno[590]
mi viene e cresce, ché non lo trovai;
a un impiegato allor lo dimandai.
58. Mi fu risposto ch’erano partiti
già da tre giorni e via li avean portati
“e dirvi non saprei dove sian iti,[591]
ma credo che a Glendive siano andati.”[592]
Annunzio doloroso! Oh,[593] Stati Uniti,
dietemi cosa fate, o Uniti Stati,
che senza niente mi avete lasciato,
solo il vestito che teneo indossato!
59. Al carro ritornai molto dolente,
piangendo la disgrazia a me avvenuta,
e insiem con me v’era dell’altra gente,
ma poca era la roba lor perduta.
Passa la trista notte e il dì vegnente
si batte un telegramma,[594] che tenuta
fosse la roba nostra e riguardata:
“è Vostra Signoria molto pregata”.
60. L’ordin mandato fu al soprintendente,
ma la risposta non ci venne mai.
Intanto passai il giorno tristamente[595]
e ancora la notte, e a l’altro dì arivai.
Eran le nove ed improvisamente[596]
un ordin[597] venne che non credeo mai:
invece che a Glendive ritornare
le pietre a caricar si deve andare.
61. Misero me, dolente e poverino,
or guarda come sono disgraziato!
Nel mondo stato son sempre meschino,
ma a questo punto non son mai arivato.
Intanto si cammina ed al destino[598]
verso le tre si ariva ov’è ordinato,
ma un ordin[599] nuovo si è trovato ancora:
che ad Ebron noi si vada a far dimora.
62. Verso le cinque ad Ebron si arivava,
e appena il treno nostro fu fermato
di caricar le verghe ci ordinava,[600]
perché l’ordine molto era pressato;
ma la mia mente ad altro, sì, pensava;[601]
poi vidi un treno merci là fermato
onde la voglia venne a me di andare
in cerca della roba, e là montare.
63. Risoluto pensier non vuol consiglio:[602]
ma intanto il treno era di già partito,
ed io vi salto[603] e affronto ogni periglio
come un potrebbe far quando è bandito.
Di ritrovar procuro un nascondiglio
su quei vagoni, ma non m’è riuscito,
e il conduttor mi vide e a dimandare
tosto mi venne dove voleo andare.
64. “A Dickinson”,[604] gli dissi, “o mio signore,
per isventura e per disgrazia mia,
dal rodomastro per aver un favore,[605]
che il passo per Glendive egli mi dia.”[606]
Poscia gli raccontai tutto il tenore
e, se gli piace, star sul tren mi fia.
Come a Dio volle, mi ci[607] fece stare,
e nel caboose poi mi fece andare.[608]
65. Così come a Dio piacque alfin fui giunto
a Dickinsone[609] alle dieci di sera,
ma quella era un’ora, per l’appunto,
che a letto il rodomastro andato n’era;
e per passar la notte mi fui assunto[610]
dentro una stanza, e là dormii per terra;[611]
e poi aspettare[612] fin che si levasse
il rodomastro e il passo mi donasse.
66. Or mentre ch’io ne stavo ad aspettare,
girando per la gara me ne andavo;
di dentro a dei vagoni udii parlare
in italiano, e colà mi accostavo.
Il primo che mi venne a capitare
che gente fosse quella dimandavo:
mi fu risposto ch’erano toscani
tranne che tre, ch’eran napoletani.
67. Ragionando così, venni a sapere
che un mio compagno colà si trovava
che licenziato fu con dispiacere
il diciotto febbraio e mi lasciava.[613]
Ritrovatolo poi con gran piacere,
ch’era stato a Glendive mi annunziava
e che veduto il mio vagone avea
e ancor la roba che colà tenea.
68. O dolce annunzio che per me fu quello,
che metà del dolore mi traeva;
e dopo di esser tanto meschinello
forse la roba mia trovar poteva.[614]
Lascio il compagno e mi avvicino a quello
che il passo per il tren darmi doveva;
con gran piacere il tutto mi fu dato
e a l’una parto, mezzo consolato.
69. Or mentre che a Glendive me ne andava,
già la mia ghenga se n’era partita,
e là dov’era l’acqua ritornava
perché la strada dev’esser finita.
Intanto io a Glendive ne arivava
verso le sette con gioia infinita
perché quel che volevo ritrovai,
che appena sceso a ricercar ne andai.
70. Il tutto messo in ordine,[615] ne andava
dal rodomastro e così gli dicea:
se il mio vagone per favor mi dava
per trasportar la roba, e rispondea
che il giorno susseguente lui guardava;[616]
ma venne il giorno e disse che un potea
il carro darmi ed io gli chiesi[617] allora
il passo per tornare alla dimora.
71 Lui mi rispose che il passo mi dava
per Mandan, “ché stasera facilmente
il lavoro la ghenga terminava
e là si ritirava quella gente”.[618]
Avuto il passo, il treno si aspettava
che alle quattro dovea esser presente,
ma ritardò nove ore e aspettar noi
convienci[619] a notte l’una e partir poi.
72. A l’una ne partii, come vi ho detto,
con tutta la mia roba ritrovata;
con me teneo una cassa e un valigetto,
l’altra l’aveo spedita e assicurata.
A Mandan giunsi all’otto, ahi[620] poveretto!
ma la ghenga colà non vi ho trovata.
Allor dov’era ad un lo dimandava:
mi rispose che a l’acqua sempre stava.
73. Prendo il biglietto per il treno e parto
e un bello scudo mi toccò pagare,
ma giunto al posto guardo, e mezzo matto
restai ché là non li potei trovare.
Seguito a viaggiar, ma poi ad un tratto
la ghenga vidi e giù voleo saltare;
ma il treno camminava a gran carriera
e di scendere lì non vi è maniera.
74. Un poco dopo il treno rallentava
la gran carriera che prima tenea,
ed io prendo gli oggetti e li gettava
per terra ad uno ad un[621] mentre correa;
poscia io stesso giù dal tren saltava
perché più avanti andare io non volea.
Con l’aiuto di Dio non mi fei niente;
poi torno indietro a ritrovar la gente.
75. Ora la roba ch’io tenea spedita
nella stazione a Mandan era restata,[622]
perché credeo colà trovar la gita,[623]
ma la cosa al contrario l’era andata.
Però dopo tre dì si fa partita
perché la strada aveamo[624] terminata.
E, giunto a Mandan, alla stazione andai[625]
per la mia roba, e chiuso ritrovai.
76. Chiuso trovai perché era tarda l’ora,
sicché la roba non potei pigliare;
e la mattina dopo, di buon’ora,[626]
colà ne vado, ma venni a trovare
ancor serrato;[627] ma vedeo di fuora,
da un vetro, dentro la mia roba stare.
Vederla, sì, ma non poterla avere
è già una cosa che fa dispiacere.
77. Intanto là una macchina arivava
e i nostri carri prende e li trasporta
vicini alla stazione, e pronta stava
per partire,[628] e serrata è ancor la porta.
Dolore immenso che il mio cuor stracciava,
dover partire e là lasciar di scorta[629]
tutta la roba che spedita avea,
che dal dolore quasi ne piangea.
78. Così fra atroci pene io vidi entrare
dentro della stazione un impiegato,[630]
e a forsa di pregare e ripregare
venne ad aprire[631] e poi mi ha consegnato
la roba e presto la volli portare
sul vagon[632] più vicin ch’ebbi incontrato;
e mentre la mia roba trasportava,
il treno parte e già via se ne andava.
79. Con quanta forsa aveo corevo forte,
poi butto su la roba e poscia anch’io
vi salto sopra, e con felice sorte
mi riuscì montar, piacendo a Dio.
Lettor, sarebbe meglio aver la morte
che ritrovarsi a quel che ho provo io,
in questo mondo pieno di dolore;
ma sia così se ciò vuole il Signore.
80. Eran le sette quando io ero nel fuoco
della gran doglia e che si ebbe a partire
e che lasciai (per me)[633] quel tristo loco
ed a Sedalia[634] ci convenne ire.
Ma tempo è ormai che mi riposi in poco,
e spero che vogliate acconsentire:
dopo tanti travagli e tanti stenti,
spero che nessun faccia complimenti.[635]
CANTO QUARTO
La campagna di Antonio Andreoni
1. Essendomi, lettori, riposato,
convien che segua il mio ragionamento.[636]
Mi ricordo che il canto ebbi lasciato
quando a Sedalia me n’andai contento;
ed ora che l’inverno è già passato
e il caldo se ne vien, pian piano e a stento,
in questo canto vi farò sentire
quel che ho passato, se mi state a udire.
2. Come vi dissi che a Sedalia andai,
contento come un asino d’aprile[637]
che vede l’erba già fiorita e ormai
e già passata è la stagion virile;[638]
eran pure per me passati i guai
perché con me ne vien la roba, e umile[639]
è pure la stagion, ché il verno è spento
e il freddo più non dà nessun tormento.[640]
3. Quando a Sedalia noi fummo arivati,
delle pietre ci fanno caricare,
e là parecchi giorni ebbi passati;
ma il venticinque april ci fan cambiare
e a Swit Brier siamo ritornati;
ma un giorno solo ci fan lavorare
e poi, il lavoro essendo terminato,
si sta due giorni a spasso e ci han pagato.
4. Poscia si parte per farne ritorno
alla città Glendive nominata,
e giunti a Dickinson femmo soggiorno
e ci passammo ancora la nottata;
poi si riparte, verso il mezzogiorno
del dì seguente, e sensa far fermata,
e a Glendive si giunse allegramente
verso le sette, sensa inconveniente.
5. La mattina di poi ci fanno ire
tutte quelle fascine a caricare
che avéamo fatte prima di partire,
e per due giorni ci toccò sudare
ché ottanta mila e più, sensa mentire,
erano; e poi partenza ci fan fare[641]
per Tusler la domenica di sera
che ben preciso il quattro maggio era.
6. Coi nostri carri vennero attaccare
tutti i vagon che avéamo caricati
e ancor di molte pietre che noi usare
si doveva ai lavori a noi ordinati,
e poi la notte ci fan camminare;
e quando a Tusler noi fummo arivati
ci danno il tempo di mangiare un poco
e quindi del lavor si va sul loco.
7. Arivati che fummo incominciammo
a scaricar le pietre e le fascine
e poi con queste dei bibì si fanno,[642]
quindi nell’acqua li gettiamo in prime;[643]
dopo altre fascine, e se non stanno
ferme,[644] sopra altre pietre, che alla fine,
a forsa di fascine e pietre tante
si fa una serra al fium[645] forte abbastante.[646]
8. Onde l’acqua che prima ne venia
da quella parte più non può venire,
e se prima rodea la ferrovia,
ora con quella ser ci deve empire. [647]
Quivi noi lavorian con allegria
ventidue giorni, e poi ci fan partire[648]
e a Blachford[649] noi ci fanno andare
una gran curva secca addirizzare.
9. Quivi con allegria ognun si stava,
e spesse volte a caccia me ne andavo:
di molto selvaggium là si trovava,[650]
che a casa a vuoto mai me ne tornavo;
a lepri ed a conigli si sparava,
a beccacce, a germani e, se trovavo
galline indiane o pure de piccioni,
a tutti sparo in mezzo a quei valloni.[651]
10. Posso dir che per mezzo della caccia
a mia disposizion sempre teneo
lepri, conigli e ancor qualche beccaccia,
che di mangiar finirli io poteo.
La domenica sola mi procaccia
il companatio[652] che bisogno aveo
per giungere di nuovo al dì di festa,
poi ancora torno dentro la foresta.
11. Quel che vi posso dir, cari uditori,
che la caccia è un mestiere molto bello,[653]
ma quando gli animali escono fuori
a sturme:[654] sia pur cacciator novello,
è un vero divertirsi a quei sonori
colpi di schioppo, e poi correte snello[655]
a prendere la preda da voi uccisa
e dietro all’altra poi correte in guisa.[656]
12. Ma se al contrario da casa partite
con l’intensione di far preda tanta,
poi niente non trovate e vi smarrite
per quei valloni ove non fu mai pianta,
allora, sì, la caccia maledite
e maledite anche l’uccel che canta,
vi maledite voi che siete stato
sempre alla caccia troppo appassionato.[657]
13. La caccia è maledetta, e maledetto
è il cacciatore troppo appassionante,[658]
perché mena una vita assai negletta
e spesso torna stanco ed anelante
e con il cuore che gli batte in petto,
di fame e di sudor sempre grondante;[659]
e poi (dice il proverbio) chi vuol fare
poveri i figli a caccia deve andare.[660]
14. Lascian questi proverbi e ritorniamo
a ciò che prima vi volevo dire.
Di molto tempo a Blatchford stiamo[661]
e quel che feci vi farò sentire
nel tempo che colà noi lavoriamo.
Dei soldi a casa dovevo spedire
e un giorno a Miles City me ne andai,
ma sensa vaglia la posta trovai.
15. Due notti e un giorno mi convenne stare
in quel paese maledetto e brutto
e poscia a Blatchford ritornare
dei miei interessi sensa nessun frutto:
poco dormire e poco da mangiare,
con molta sete e molta spesa:[662] or tutto
è quello che io feci in quel paese
per me, vi dico, sai poco cortese.[663]
16. Alcuni giorni dopo dimandai
l’ordine[664] al bosso s’io potevo andare
in nel[665] paese chiamato Glendai,[666]
ché dei denari dovevo impostare.
Quegli mi disse: “Se piacer ne hai,
col volck tren[667] sabato ser[668] puoi andare.”
Io gli risposi che l’ero[669] contento;
della partensa alfin giunse il momento.
17. Giunto il momento sul vagon montava[670]
del conduttore, e si prese il cammino,
ma per la strada il fuoco si appicciava[671]
al vagon nostro[672] – oh, rio fatal destino![673]
Il treno a tutta forsa camminava,
ché water tanck[674] era assai vicino,
che se distante si fosse trovato
il vagon tutto sarebbe bruciato.
18. Appena giunto sotto a quel gran tino
d’acqua ripieno, comincia a versare
di quel liquido sopra, che in pochino
di tempo il fuoco si venne a spegnare.[675]
Quivi ci tratteniamo un momentino
poi di nuovo comincia a camminare,
e camminava sì come va il vento
che a Glendive si giunse in un momento.
19. A Glendive si[676] giunse a notte oscura
e al ciel sereno la notte passai,
e la mattina dopo addirittura[677]
all’ufficio di posta me ne andai.
La prima cosa guardo con premura
se lettere ci aveo; poi dimandai
a l’impiegato se far mi volea
un vaglia,[678] ma rispose che un potea.
20. “Essendo dì di festa, amico caro,
vaglia “ mi disse “ nn vi posso fare.
Tornate dimattina,[679] ed il denaro
che voi volete si potrà mandare.”
Quel giorno e ancora la notte con amaro
core in quel luogo mi convenne stare
e il dì seguente, fatto il tutto ormai,
alla mia ghenga me ne ritornai.
21. Di luglio era il quattordici la sera
quando alla ghenga mia feci ritorno.
Passava il tempo come primavera,[680]
e molto dimorammo in quel contorno
di Blatchfoord,[681] ed ogni sera guerra[682]
si faceva cacciando; ma poi il giorno
a noi rigiunse di dover cambiare
e vicini a Medor ci fanno andare.
22. Il due di agosto si fece partensa
ed a Glendive ci fecer fermare,
e un giorno là si sta di permanensa,
e poi la notte ci fan camminare;
la mattina si giunse in preferensa[683]
al luogo[684] ove si deve lavorare,
che un lungo sguiccio[685] far ci si dovea
e là traverse e verghe si mettea.
23. Quasi il lavoro terminato era
e l’ordin di cambiarci si aspettava
quando si vide venir di gran carriera[686]
una macina[687] che forte fischiava;
vicino a noi passò come pantera
ferita al bosco, e poscia ritornava
con dei vagoni mezzo fracassati
che lì poco distante aveva pigliati.
24. Subito noi si cominciò a pensare
che un treno recca[688] fatto aver dovea,
e dal levante si vedea inalsare
globi di fumo e in aria si spandea.
Allora tutti si pensò di andare
per veder cosa fosse, e si correa
sul luogo, e quando là ne fui arivato
trovai che un gran ponte era bruciato.[689]
25. Un treno che poc’ansi era passato,[690]
che verso dell’oriente se ne andava,[691]
e non appena al ponte fu arivato
che giù dentro al vallon precipitava.[692]
Il ponte, che non tutto era bruciato,
la macchina corendo via passava[693]
ma quei vagoni che tenea rasenti[694]
precipitaron nelle fiamme ardenti.
26. Chi quelle grandi fiamme visto avesse
ardere quei vagoni fracassati,
che pieni eran di tavole complesse[695]
e di altri oggetti tutti caricati![696]
Ci volle un giorno pria che si spegnesse
quel fuoco;[697] e sopra i ferri aroventati
dell’acqua in abbondansa si gettava,
che appunto lì vicina si trovava.
27. Il machinista[698] fu ben fortunato
che la macchina dritta via passasse,
perché altrimenti sarebbe bruciato
sensa speranza che niun lo salvasse.[699]
Il fuochista dal treno era saltato
prima che al ponte rotto egli arivasse,
ma un frenator, che sopra si trovava
dei cari, ambo le braccia si[700] troncava.
28. Il grand’urto che presero i vagoni
per l’aria in frenator fecer saltare[701]
e poscia in terra se ne andò bocconi,
che ambo le braccia gli fece troncare.
Era già notte quando i caporioni
sul locale[702] si videro arivare,
con sé portando tutto l’occorente
e accompagnati con di molta gente.
29. Subito tutta quanta quella gente
insien con noi si mise a lavorare,
e tutti lavorando attentamente
molto lavoro lì si venne a fare.
È propio[703] ver, se il gatto sta presente
il topo non può far quel che gli pare:[704]
ché quivi essendo i superiori, noi
tutti si lavorava come buoi.
30. Ancor non era il giorno ritornato
che il tutto già si venne a terminare
e un ponte ivi alla meglio fu formato
che il treno, andando pian, potea passare.
A letto poscia ognuno ne fu andato,
sì, per potersi un poco riposare;
e la mattina dopo di buon’ora
si parte e a lavorar si andò a Medora.
31. A Medora si andò per poco tempo,
che uno sguiccio[705] pulire si dovea,
e sì, di andarci ognuno fu contento,
ché al certo rifiutar non si potea.
Là si trovò molto divertimento
per la gran cacciagion che si facea,
che uno a caccia un’ora se ne andava,
meno di sei conigli non portava.[706]
32. A Medora si sta quindici giorni
e là passando un tempo lieto e grato;[707]
quindi si cambia e si va nei contorni
che è Sentinel Butte nominato.
Colà credevo di passar più adorni
i dì, ma caccia non se n’è[708] trovato,
e ognun di cambiar presto desiava
ché a tutti quanti il luogo non garbava.
33. Quantunque mal contenti ci si stesse,
sette giorni in quel luogo dimorammo,
e ancor che i giorni lunghi ci paresse[709]
il lavoro che vi era terminammo.
Però pregavo sempre che giungesse
l’ordine di partire, ed aspettammo.
Si aspettò tanto che alla fin veniva
e che la sera stessa[710] si partiva.
34. Il giorno sei di settembre era
che noi la sera si dovea partire,
ma la macchina pronta ancor non era
e lì la notte bisognò dormire;
ma la mattina assai di buona cera[711]
un treno merci si vide apparire
e, giunto dove tutti noi si stava,
si ferma e i carri nostri ancor pigliava.
35. Appena i nostri carri ebbe attaccato
il treno parte e con sé ci portava;
più volte nel cammin si fu fermato,
ché molti inconvenienti vi trovava;
alla fine a Glendive fu arivato
che l’orologio mezzo dì segnava.
Quivi si ferma e lì si fa dimora
per tutto il giorno e poi la notte ancora.
36. Verso le due dopo la mezzanotte,
che tutti quanti appunto si dormiva,
si sente nei vagoni due o tre botte
e quello era il segnal che si partiva.
Il treno parte e via corendo forte[712]
che allo spuntar del giorno alfin si ariva
a quel locale[713] sì tanto bramato
che Fallon pel suo nome vien chiamato.
37. In quanti luoghi ov’io mi son fermato,
ossia nel Nor Dakota ossia in Montana,[714]
un luogo come questo mai ho trovato.
Che si stia così bene è cosa strana:
quantunque un luogo sia poco abitato,
tutto qui vi è, ché ogni persona umana
qualunque siasi cosa vuol comprare[715]
non ha bisogno in altri posti andare.
38. Oltre di questo vi son lepri assai,
molte galline e qualche cervio[716] ancora,[717]
che a casa a vuoto non si torna mai,
basta che col fucil si sorti[718] un’ora.
Il dì ventuno di settembre andai
a caccia e, mentre ne spunta l’aurora,
appunto in un vallone io[719] arivai
e di là uscire un cervio rimirai.
39. Appresso a quello un altro ne sortia,
e giù per il vallon presero il trotto.
Intanto i miei compagni ne avvertia
che il cammino gli tronchino di botto:
ognun ben presto ne prese la via
sensa parlare e sensa farne motto;
ma quelli che fuggian come un baleno…[720]
Indietro torno, di tristezza pieno.
40. E si decise allor di far ritorno
verso le carra, ch’era l’ora ormai,
perché si avvicinava il mezzogiorno
e della caccia se ne aveva assai.[721]
Nel ritornare si cacciava intorno
di quei gran monti e due lepri ammazzai;
e giunto al carro m’ebbi a far mangiare,
ché dalla fame mi sentio mancare.
41. Dopo mangiato cessa l’appetito
ma le faccende non finiscon mai:
e quando di mangiare ebbi finito
i panni sporchi tutti mi lavai;
quindi dal bosso mi venne un invito
e insien con esso a caccia ritornai,
ma non tanto copiosa fu la caccia:
due lepri, tre conigli e una beccaccia.
42. Appena dalla caccia ritornato
cena mi feci e a letto me ne andai,
e la mattina, bello riposato,
allegro come un usignol mi alzai;
quattro giorni ancor quivi dimorato
e poi di nuovo il bel Fallon lasciai,[722]
e a Terry ce ne andammo a lavorare,
delle traverse marce a ricambiare.
43. Quivi noi stiamo assai comodamente
e mai nessun si sente questionare
perché la ghenga mia son tutta gente
che hanno bisogno soldi guadagnare.[723]
Io già non li conosco, certamente,
ma quel che[724] a lor si sente il dì parlare,
tutti sono morosi[725] addirittura
e di spedir denare han gran premura.
44. Or questo tralascian, ché far palese
l’altrui[726] interessi a me non par decenza,[727]
e chi nel mondo viver vuol cortese
la man si metti[728] sulla sua coscenza.
Un po’ di tempo si sta in quel paese,
e poi di nuovo si rifa[729] partensa
e a Blactford si ritorna ancora,
e là quindici dì si fa dimora.
45. Il tempo passa presto, e presto passa
come un fumo che vola e che sparisce,[730]
e giunto al giorno[731] Blactford si lassa
ed Hoit[732] di nuovo si fornisce,[733]
là rialsando ove la strada è bassa.
Ma un dì il mio corpo sento che avvilisce
e le mie forse vennero a mancare
e mi convenne intanto al carro andare.
46. Giunto al vagone me ne andai a letto
e un po’ di febbre incominciò a montare
ed un dolore mi si sveglia al petto
che appena io potevo respirare.
Il dì seguente me ne andai soletto
dal dottore per farmi visitare;
visitato che fui, ne ritornai
col tren la sera al carro e a letto andai.
47. Ben quattro giorni a[734] letto stetti intieri;
solo mi alsava per farmi mangiare.
Or voi pensate quai tristi[735] pensieri
la mente mia venivano a turbare!
La morte avrei abbracciata volentieri,
ché tanto il mondo un dì si ha da lasciare;
ma quello che aumentava i miei tormenti
era che i figli non tenea presenti.[736]
48. Ma l’ora non essendo stabilita
del fin della mia vita,[737] Iddio pietoso
molto sì mi consola e porte aita
al male mio ch’era tanto ritroso.
A poco a poco sento la mia vita
rinvigorir, che in breve ebbi riposo
e il male che cessando in breve andava
di bel nuovo in salute ritornava.[738]
49. In salute ero torno,[739] ma il dolore
di tanto in tanto si facea sentire
ed io pregavo sempre il Creatore[740]
che intieramente mi fesse guarire.
Pur lavorava, e non vi sia stupore,
perché il bisogno non vuol mai fuggire;
e poi pensavo a casa che ci avea
la moglie e ancor di figli un’assemblea.
50. Pure come a Dio volle,[741] a poco a poco
il mio dolore se ne va cessando
e la salute torna (or parvi un gioco)
mentre dalla fatica io sto sudando.
Poscia ritorna il tempo che quel loco
lasciar si deve e si va camminando;
e in tutti i posti noi bisogna andare
dove il bisogno vi è di lavorare.
51. Quindi si parte, e con allegra cera
alla stazione di Conlin[742] si ariva,
e lì si ferma, e nell’istessa sera[743]
un ordin viene mentre si dormiva
che il luogo di fermarsi lì non era;
ma la mattina mentre il sol ne usciva
un ordin nuovo venne che si stesse
dov’eravamo[744] e che non si movesse.[745]
52. Dunque a Conlin si ferma e si lavora
ogni giorno che il sol si alsa e declina,
e non si perde mai nemmeno un’ora,
basta che bene un si alsi la mattina.[746]
La domenica sol si fa dimora[747]
e si va in traccia di carneficina[748]
e che cacciando noi si fa morire[749]
e per compane[750] questa ha da servire.
53. Di caccia più non parlo, e ad altro andiamo.
Dirò che di dicembre giunsi all’otto,
giorno funesto che ci separiamo
coi meglio amici, sensa farne motto:
ambo con gran dolor la man ci diamo,
e quelli se ne partono di botto,
perché in Italia voglion ritornare
le lor famiglie tutti a ritrovare.
54. Che giorno di contento che è mai quello
che un se ne parte e a casa sua ritorna!
E specialmente per un poverello
che di moneta[751] le sue tasche adorna,
e che nessun per lui facci[752] duello
e che compagna non gli facci corna.
Ma a casa vanno i più compagni cari[753]
di corna ricchi che non di denari.
55. Partiti che fur quelli e noi restati,
a lavorar si seguita contenti
ed altri nuovi ancor quivi arivati
[pr]endono[754] il posto di tutti gli assenti;
ma poco dopo venner licenziati
[e] questi se ne vanno malcontenti.
[Noi] vecchi di lavoro sol restiamo:
[o]r qual causa fu non lo sappiam[o].[755]
56. Cari lettori, per non prolungarmi
[dir]ò che venti giorni ancor si stette
[in] quel locale con graziosi carmi[756]
e inconveniente alcun non succedette.
Solo, una sera, pria di coricarmi,
un ordine venne e partir si dovette
e camminando con molta paura
a Glendive si giunse a notte oscura.
57. A Glendive si giunge allegramente
con un freddo che tutti fea tremare,
ma le stufe s’imbora[757] totalmente
che il freddo tutto femmo via scappare.
Il freddo via ne andò ed è realmente
ma sì, di fuori si sentia fischiare
il vento; e[758] la mattina di buon’ora
tutti per lavorar ne uscimmo fuora.
(un foglio perso quattro ottave)
62. E se credere a me voi non volete,
a tanti voi potete dimandarlo;
in cui[759] leggendo assai ne troverete
che tutti quanti possono accertarlo,[760]
e specialmente ad un,[761] se il conoscete,
un mio cugino, certo Andrea Del Carlo;
ma il più che asser[762] può questi progetti[763]
è un chiamato Massimo Giometti.
63. Dunque, amici, vi lascio e scuserete
se la mia storia al termine non tiro;
ma verrà tempo mi ritroverete[764]
e allor vi conterò tutto il mio giro
– però se avren salute, l’intendete.
Preghiamo Iddio, che le sue grazie ammiro;
di grazie è Dio ripien, ma or mi dispiace
lasciarvi. O miei lettor, restate in pace.[765]
FINE
[1] La misura del verso è facilmente ristabilita col troncamento dell’infinito, anda’, tipico del vernacolo lucchese.
[2] Ms: oh! che afflizione.
[3] Gli emigrant partivano quasi sempre in gruppo. Le Avvertenze popolari agli emigranti pubblicate dal Regio Commissariato dell’emigrazione nel 1914 ricordavano che gli emigrant avevano diritto a speciali riduzioni nel prezzo del biglietto ferroviario, per il percorso in Italia, sia all’andata che al ritorno, a certe condizioni: “La concessione è accordata soltanto agli emigrant i quali esibiscono un biglietto d’imbarco in 3a classe e che viaggiano in gruppi di dieci o più persone.” Manuali ad uso degli emigranti erano stati pubblicati anche in anni precedenti, per esempio G.B. Landi, Avvertimenti per gli Italiani che vogliono emigrare negli Stati Uniti d’America, Piacenza, Tip. Marchesotti & Co., 1891.
[4] Ms.: aritrovare.
[5] L’agenzia che aveva organizzato il viaggio e che si occupava anche della spedizione di merci: le navi stesse facevano spesso il viaggio verso l’Europa cariche di merci e il viaggio in senso contrario cariche di emigranti.
[6] Il piroscafo che portava la posta e che il gruppo aveva in un primo tempo programmato di prendere.
[7] Ms.: unboccone.
[8] Ms.: li.
[9] Ms.: quore, come sempre nel manoscritto.
[10] Ms.: cesce. Allusione a sbuffi, o soffi, d’impazienza.
[11] Le Avvertenze raccomandavano agli emigranti di arrivare almeno ventiquattro ore prima dell’ora di partenza del piroscafo. L’ultimo pasto prima dell’imbarco era pagato dalla Società di navigazione.
[12] Moneta ha il senso generico di ‘denaro’, come anche a IV, 54.4, e corrisponde all’inglese money; ma l’accezione era diffusa nell’italiano meridionale (cfr. Siniscalchi, Idiotismi. Voci e costrutti errati più in uso nel Mezzogiorno, Cerignola 18973) e anche nell’area toscana doveva essere tradizionale: si veda, per esempio, La Spagna in rima, XV 37.4 (La Spagna, poema cavalleresco del secolo XIV, a cura di Michele Catalano, Bologna, Commissione per i testi di lingua, 1939).
[13] Per acquistare i biglietti per la continuazione del viaggio oltre Torino. Per quanto il testo non lo dica esplicitamente, la destinazione doveva essere Le Havre. Le Avvertenze del 1914 ricordavano: “La legge prescrive che l’imbarco degli emigranti debba avvenire nei porti del Regno. Una sola società di navigazione è autorizzata a imbarcare emigranti italiani in un porto estero (Havre, in Francia, purché si tratti tuttavia di emigrant arruolati nelle sole provincie settentrionali del Regno.” L’uso del verbo spedire sarà stato indotto dal termine ‘spedizioniere’.
[14] Non è chiarissimo se l’autore intendeva proseguire la frase da un’ottava all’altra: il segmento Il nostro gran viaggio… ha l’iniziale maiuscola come tutti gli inizi d’ottava. Ma anche la maiuscola di Giunto è già nel manoscritto.
[15] Interessante l’uso di una forma antica del verbo tremare, che compare molto raramente nella letteratura italiana. Cfr. Venia dubbioso, timido e tremente nell’Orlando Furioso (XXXI 68.6).
[16] Il verbo sortire sostituisce regolarmente uscire nel linguaggio popolare toscano e particolarmente nel lucchese.
[17] Palatalizzazione indotta dalla vocale con cui inizia la parola seguente.
[18] Non è chiaro chi siano questi compagni fermati ad Alessandria, visto che l’ottava precedente recita “con tutti i miei compagni uniti insieme.” Forse un altro gruppo di emigranti italiani.
[19] Cfr. Paris e Vienna: “Or chi darà aiuto / Ai miei affanni, ahi! misero e dolente?” (V 24.4); “Piangendo andava il misero dolente” (VII 15.3).
[20] La metafora è tradizionale. Cfr. Liombruno: Ma del figliuol avea una gran ferita” (I 7.8); Guerrino in ottave: “Gli aperse in seno una crudel ferita” (p. 23).
[21] Oltre al celebre verso dantesco (Inf. I 3), cfr. anche l’Orlando Furioso: “Ma d’un parlare in altro, ove son ito / Sì lungi dal camin ch’io faceva ora? / Non lo credo però sì aver smarrito / Ch’io non lo sappia ritrovare ancora” (XVII 80. 1-4).
[22] Cfr. Gerusalemme liberata: “Ma ne l’ora che ’l sol dal carro adorno / Scioglie i corsieri...” (VII 3.5-6).
[23] Per ‘meta’, probabilmente per esigenze di rima.
[24] La vaccinazione contro il vaiolo era prescritta a chiunque volesse emigrare. Cfr. Avvertenze.
[25] Ms.: interra (?).
[26] Il femminile rimanda forse a un implicito ‘persone’.
[27] L’Andreoni s’imbarcò sul piroscafo Aquitaine, della Compagnie Générale Transatlantique francese. Il suo nome compare infatti nella lista dei passeggeri dell’Aquitaine sotto la data 9 marzo 1901. Dal 1898 in poi, le compagnie straniere superarono quelle italiane nell’assicurarsi il trasporto degli emigranti, che “costituivano, in quel tempo, il principale articolo d’esportazione” per l’Italia. La feroce concorrenza dava luogo anche a ribassi sui prezzi dei biglietti, ma avveniva soprattutto sul terreno delle commissioni. Spiega Gaetano Serino: “Agenti e sub-agenti si occupavano di ingaggiare il maggior numero possibile di emigranti e di condurli a quelle imprese di navigazione che pagavano le più alte senserie, oscillanti intorno alle 20 lire per emigrante; ma tali provvigioni salivano spesso a 30, 40, 50 lire, ed in alcuni casi superavano tale cifra, fno a raddoppiare il prezzo netto che percepiva l’armatore per il trasporto e il vitto del passeggero. In tali condizioni è facile intendere come i nostri connazionali fossero spesso trattati male, sia per l’angustia dello spazio concesso, sia per la qualità del nutrimento e sia per l’igiene”. La legge sull’emigrazione del 1901 regolamentò il prezzo dei noli nel tentativo di stornare il flusso degli emigranti dalle compagnie straniere a quelle italiane, ma senza successo. Del resto, “nel 1902 i piroscafi italiani iscritti in patente e che avevano una velocità superiore alle 14 miglia erano soltanto 4 e vi figuravano altre 9 unità con più di vent’anni di esercizio: in quell’anno nessun transatlantico italiano aveva una stazza lorda superiore alle 8mila tonnellate.” Così, nel 1906 salparono da porti italiani un totale di 227.254 emigranti, trasportati da compagnie di bandiera inglese, germanica, francese, spagnola, austro-ungarica, contro 190.754 trasportati da imprese italiane. Cfr. Gaetano Serino, Le imprese italiane di navigazione e la concorrenza straniera nel traffico Atlantico dei passeggeri (1900-1914), “Rivista marittima”, X (novembre 1931 e febbraio 1932) e L. Bodio, Dell’emigrazione italiana e la legge del 31 gennaio 1901 per la tutela dell’amigrante, “Nuova Antologia, Giugno 1902.
[28] La cuccetta era assegnata a bordo della nave. Le Avvertenze del 1914 ammonivano: “Le cuccette devono essere in ferro, convenientemente separate e numerate. Il corredo di ogni cuccetta si compone di un materasso con guanciale e di una coperta di lana. Le cuccette non sono provvedute di lenzuola. Perciò alcuni emigranti le guarniscono con lenzuola proprie, la qualcosa è lodevolissima.” (p. 44).
[29] Cfr. Paris e Vienna: “Tutti contenti, con allegra ciera” (II 33.5), “Verso del Re n’andò con lieta ciera” (III 5.2), “Lor disse un giorno con allegra cera” (VII 74.7). L’attribuzione al naviglio di un’espressione normalmente riferita al volto umano provoca un involontario effetto comico.
[30] Cfr. Orlando Furioso: “Per la schena del mar tien dritto il legno (XX 9.7).
[31] Cfr. Orlando Furioso: “Tutto quel giorno e l’altro fin appresso” (XXXVII 122.1).
[32] Cfr. Paris e Vienna: “Andar dal Re pria che s’asconda il sole” (VIII 65.6); Guerrino in ottave: “E si partir prima che il sol s’asconda” (p. 4).
[33] V. anche paura : oscura a I 19. 2:6. La rima paura : oscura nell’Orlando Furioso (XXXIX 74.1:3).
[34] Cfr. Orlando Furioso: [l’ippogrifo] “E salia in aria a più libero corso” (XI 13.8).
[35] Espressione letterariamente ricercata per ‘mi avviai, con l’intenzione di salire in coperta’. Per la rima corso : morso cfr. Orlando Furioso, XI 13.7-8 e XXII 13. 1-3.
[36] Cfr. Paris e Vienna: “Giunta alla porta la trovò serrata” (III 96.3), Orlando Furioso: “Veggion che l’altra uscita era serrata” (XXXVII 99.4).
[37] Ms.: con fuso.
[38] Trapassato remoto con valore di passato remoto, frequente nella letteratura popolare. Cfr. R. Ambrosini, I tempi storici nell’italiano antico, in Strutture e parole, Palermo, Flaccovio, 1979, pp. 113-202 (pubblicato dapprima in “Italia dialettale” XXIV, 1961).
[39] Cfr. Curioso contrasto nato in campagna tra la morte e un semplicista: “Ti mando in men d’un ora [sic] in sepoltura” (p. 5), e “N’andrai per gran doglia in sepoltura” (p.6).
[40] dò in mattia: ‘impazzisco’.
[41] Ms.: frà.
[42] banda: ‘parapetto’.
[43] Movenza retorica che torna con frequenza nella scrittura popolare, ma che trova consonanza con esempi illustri: “Pensa, lettor, se io mi sconfortai…” (Inf. VIII 94). E cfr. Paris e Vienna: “Giudica in che pericol sono entrato” (VI 83.6), “Giudica pur che simil son costoro” (II 46.4).
[44] Cfr. Orlando Furioso: “Or a poppa or all’orza hann’il crudele [il vento] / Che mai non cessa, e vien più ognor crescendo” (II 30.1-2).
[45] Nel manoscritto il margine del foglio è tanto consumato che è scomparso il numero dell’ottava.
[46] Ms.: al’ l’altra.
[47] Forma arcaica di ‘elica’.
[48] Ms.: nuova York. La rima porto : conforto anche in Paris e Vienna VII 6.1:2.
[49] Cfr. Paris e Vienna: “Ecco venuto il desiato giorno” (I 38.1), “Ecco venuta l’ora desiata” (I 42.1), “Passa la notte e il giorno desiato” (II 72.5).
[50] ‘Scaricare servendosi di scale’. Sottinteso un soggetto del tipo ‘i marinai’.
[51] Nota dell’autore: “piccolo bastimento a vapore”. Italianizzazione dell’inglese steam boat e
termine comune nel gergo degli italoamericani.
[52] Ms. : oh! allora si… L’affanno del protagonista sarà dovuto al timore di essere respinto dalle autorità preposte all’accettazione degli immigranti. Fra le categorie normativamente respinte dagli Stati Uniti (persone affette da malattie contagiose o ripugnanti, deboli di mente, « tutti coloro che per le loro condizioni fisiche, mentali o professionali sono ritenuti incapaci di provvedere al loro sostentamento e fanno presumere di poter andare a carico della pubblica beneficenza ») le Avvertenze menzionavano anche le persone di età avanzata: «sebbene non vi sia alcun limite fisso per l’età vengono sovente respinti coloro che hanno oltrepassato i 45 anni.» L’autore aveva 42 anni. L’angoscia che afferra gli emigranti all’entrata nel porto di New York è riflessa anche nel racconto di Pascal D’Angelo : «There was a hideous doubt in our minds. No one was sure either of entering America or being sent back as undesirable – which would mean a ruined life. For many of us had come on loaned money whose interest alone we would be barely be able to pay when we got back.» (Pascal D’Angelo, A Son of Italy, p. 59). Ma gli ufficiali preposti all’immigrazione tendevano a non essere troppo rigidi, soprattutto per non creare intoppi in una macchina che doveva processare sui 5.000 immigranti al giorno. Fra il 1900 e il 1904 meno dell’1% dei 747.916 emigranti italiani fu rispedito a casa (M. La Sorte, La Merica. Images of Italian Greenhorn Experience, Philadelphia: Temple University Press, 1985, pp. 43 e 47).
[53] L’autore afferma senza esitazione che il suo ingresso negli Stati Uniti avvenne attraverso Castle Garden, che era stato in effetti il punto d’ingresso e di controllo degli immigranti nel porto di New York dal 1855 al 1890. Fra il 1890 e il 1892 il controllo degli immigranti avvenne al Barge Office, sull’estrema punta della penisola di Manhattan. Nel 1892, in seguito a un decreto della Corte Suprema del 1890 che rendeva l’immigrazione di competenza federale, entrò in funzione l’Immigrant Station di Ellis Island, che però fu distrutta da un incendio nel 1897 e rimase chiusa fino al 1900. Castle Garden riprese allora le funzioni di Ufficio d’immigrazione fino al dicembre del 1900. Nel marzo del 1901 Ellis Island doveva essere già stato riaperto, e non è chiaro perché l’autore parli invece di Castle Garden: i nostri immigranti devono infatti prendere lo stimbotto per andare dal Bertini (v. ottava 28), presumibilmente a Manhattan. Probabilmente Castel Garde era diventato, nella memoria collettiva degli emigranti italoamericani, il punto di controllo e di ingresso negli Sati Uniti per antonomasia. Nel 1935 l’edificio di Castle Garden ospitava l’Acquario della città di New York (Edward Corsi, In the Shadow of Liberty, New York: McMillan, 1935, pp. 59-61; Thomas M. Pitkin, Keepers of the Gate: A History of Ellis Island, New York: New York University Press, 1975.
[54] Un opuscoletto distribuito a bordo delle navi descriveva la trafila burocratica che aspettava i passeggeri in arrivo a Castle Garden: i passeggeri in arrivo avrebbero ricevuto il benvenuto delle autorità americane prima ancora di lasciare la nave [questo era vero per i passeggeri di prima e seconda classe ma non per gli emigranti che viaggiavano in terza]; a terra l’‘Ufficio Sbarco’ (Landing Department) si sarebbe incaricato di esaminare le condizioni fisiche dei passeggeri e avrebbe scartato quelli affetti da disturbi mentali; i nuovi arrivati sarebbero stati introdotti in una vasta rotonda dove sarebbero stati suddivisi in gruppi separati secondo lingua e nazionalità. Un altro ufficio avrebbe registrato il nome, il paese di provenienza e la destinazione di ciascuno, dirigendoli poi o a un Ufficio Informazioni o al rappresentante di una delle compagnie ferroviarie transcontinentali. Ottenuto il biglietto e consegnato il bagaglio, i nuovi arrivati sarebbero stati trasferiti alla stazione ferroviaria e imbarcati su uno dei treni verso l’Ovest – “all accomplished very smoothly thanks to the efficiency of Castle Garden and its friendly officials” (D. A. Brown, Hear That Lonesome Whistle Blow, 1977, p. 242). Anche se nella realtà le cose si sarebbero svolte in modo molto più confuso e angosciante, la descrizione aiuta a capire meglio i movimenti del nostro emigrante. Una vivace e interessante descrizione della routine burocratica a Ellis Island (che certo doveva essere molto simile a quella che si era svolta Castle Garden) negli anni della grande ondata migratoria si trova nel libro di Edward Corsi, direttore della ‘stazione’ di Ellis Island dal 1931, In the Shadow of Liberty. The Chronicle of Ellis Island, New York: McMillan, 1935 (reprint 1966). Fra l’altro, vi si legge una pittoresca e gradevole deescrizione della biglietteria ferroviaria di Ellis Island, alle pp. 123-125, e delle pratiche di ammissione, discriminazione e deportazione degli emigranti alle pp. 71-92 e 96-112.
[55] A Ellis Island, gli immigrati che avevano ricevuto il permesso d’ingresso erano incanalati verso tre diverse uscite, a seconda della destinazione, chiamate The Stairs of Separation: una per quelli che dovevano aspettare un parente che venisse a prelevarli (New York detainees), una per quelli che sarebbero rimasti nella zona di New York (New York Outsides), e una per quelli che proseguivano il viaggio in ferrovia (Railroads). “The procedure was judged necessary and practical, for without it the immigrants would have lingered over their goodbyes, creating a blockage that would have disrupted the entire system.” (M. La Sorte, La Merica. Images of Italian Greenhorn Experience, p. 46).
[56] Ms.: un’impiegato.
[57] Ms.: quello scritto sopra un precedente lui.
[58] Conservazione della u da u breve, cfr. S. Pieri, Fonetica del dialetto lucchese, “Archivio Glottologico Italiano” XII (1890-92), p. 110.
[59] Non è chiaro chi sia l’impiegato che ha l’elenco degli emigranti e li indirizza verso una particolare pensione italiana. Forse uno dei tanti “locandieri che stavano in agguato per piombare sugli immigranti appena liberati dalla visita di Ellis Island”, o un rappresentante della Società per gli Immigranti Italiani, (società privata istituita nel 1887), di cui il Villari scrive, nel 1912, che “è riuscita ad eliminare molti degli abusi commessi dagli interpreti, banchisti, agenti di collocamento e locandieri, […]”? Continua il Villari: “La polizia locale, talvolta sospetta di collusione coi colpevoli e spesso inetta, non era riuscita a sradicare lo sconcio […] mentre la Società, vigilando per mezzo dei suoi agenti svelti e capaci, ha ottenuto buoni risultati, ed è persino riuscita a far punire molti dei colpevoli. Recentemente essa ha istituito una Casa per gli Italiani a New York di fronte al posto di sbarco da Ellis Island, dove immigrati e rimpatrianti trovano alloggio e vitto decente, con sicurezza per i loro averi, a prezzi modici.” (L. Villari, Gli Stati Uniti d’America e l’emigrazione italiana, p. 302). La Casa per gli Italiani (Italian Home), per la cui istituzione si era battuto il console G. P. Riva, era stata aperta nel 1889 (cfr. Fabio Grassi, Il primo governo Crispi e l’emigrazione come fattore di una politica di potenza, in Gli Italiani fuori d’Italia, a cura di B. Bezza, Milano: Franco Angeli, 1983, p. 45-100:87). Secondo il Sori, però, l’Italian Home funzionò soprattutto come ospedale per gruppi ristretti della comunità italiana di New York (Sori, p. 327). L’Andreoni trova comunque non solo vitto ma anche alloggio nel luogo indicato dall’impiegato (v. più avanti, ottava 30).
[60] Gli ultimi due versi evocano espressioni da canti popolari. Cfr. per esempio “E dopo aver mangiato, mangiato e ben bevuto…” del canto alpino Di qua di là dal Piave. Ma il topos è antichissimo. Cfr. Fioravante: “Quand’ebbero ben mangiato e bevuto a lor senno tutto il bel colore fu lloro tornato nel volto” (citato da Il romanzo cavalleresco medievale, a cura di Daniela Delcorno Branca, Firenze, Sansoni, 1974, p. 70).
[61] Il tono del passaggio tradisce una certa impazienza, probabilmente per non essere riuscito a prendere il biglietto il giorno prima, a causa dell’intervento dell’‘impiegato’.
[62] Il biglietto. Per l’espressione famosa insegna cfr. Paria e Vienna, II 37.2, II 79.1.
[63] Per la desinenza di terza coniugazione in verbo della quarta, comune per il verbo sentire nel contado lucchese, cfr. S. Pieri, Appunti morfologici sul dialetto lucchese, p. 169.
[64] Nelle campagne lucchesi si mangiava a mezzogiorno, e l’Andreoni non aveva mangiato dalla sera prima.
[65] Ms.: un’impiegato.
[66] Nota dell’autore: “caro elettrico.” Forse un tranvai.
[67] La locuzione di ambito cavalleresco, attribuita ad un battello e associata ad una stazione, risulta comicamente incongrua. La stazione sarà stata the Hoboken Railroad Terminal (cfr. M. La Sorte, La Merica, p. 46). Dagli Uffici dell’immigrazione l’Andreoni passa dunque alla pensione del Bertini, presumibilmente a Manhattan, dove mangia e va a letto, da qui torna a Castle Garden, o piuttosto a Ellis Island, a prendere il biglietto, poi deve prendere di nuovo lo stimbotto per recarsi alla stazione Hoboken, che è situata sulla riva occidentale del fiume Hudson. Come tantissimi altri immigranti, il nostro passa accanto a New York senza vederla. È strano che l’autore non faccia alcun accenno alla Statua della Libertà, che pure dominava il porto di New York dal 1886. Al contrario Raffaello Lugnani, conterraneo dell’Andreoni, come lui emigrato in America (nel 1902) e ugualmente amante della poesia, così annotava nelle sue sestine: “Noi s’era là vicini a un pedistallo / dove una statua suscita il pensiero / di libertà, che tutti, senza fallo, / vanno cercando con un cuor sincero; / ma per trovarla ci vuole del coraggio, / della vita dell’uom nel gran viaggio. […] Fa sognar quella donna a contemplarla: / sembra ti voglia toglier la paura, / la libertà lei insegna di trovarla / ai miseri che vanno alla ventura…” (Raffaello Lugnani, Sulle orme di un pioniere, a cura di Aquilio Lugnani, Massarosa (LU): Tipografia Massarosa Offset, 1988, p. 27). Diretto a Chicago, l’Andreoni si servì forse della linea ferroviaria Erie, che passava da Buffalo, N.Y.; il prezzo del biglietto da New York a Chicago era di 13 dollari.
[68] Una delle rare rime imperfette del poema.
[69] La forma Buffalò, con l’accento sull’ultima sillaba è codificata nel gergo italoamericano. L’arcaica desinenza –orno per la 3a plurale del passato remoto, nei verbi di prima coniugazione, era popolare dappertutto in Lucchesia (Nieri, Vocabolario lucchese, p. 44 sotto la voce Cantare).
[70] ‘Non c’è scampo, non vi è alternativa’.
[71] Buffalo è situata sulle sponde del lago Erie e alla foce del fiume Niagara. L’autore si riferisce probabilmente alla traversata del fiume Niagara fra Buffalo e Fort Erie (in Canada). Da qui partiva la linea ferroviaria della compagnia canadese Grand Trunk che attraverso Detroit portava a Chicago.
[72] Non esiste a Chicago una stazione con questo nome. Molto probabilmente si tratta della stazione Dearborn (costruita nel 1885 dalla compagnia ferroviaria Chicago and Western Indiana), a cui facevano capo le linee ferroviarie Grand Trunk, Erie, Santa Fe e Wabash (cfr. E. F. Carter, Famous Railway Stations of the World, London: Frederick Miller, 1958, p. 135; I. J. Bach, A Guide to Chicago Train Stations, Athens: Ohio University Press, [1986], p. 14). Posta all’incrocio fra le strade Dearborn e Polk, la stazione non era lontana dalla via Franklin, verso la quale si avvia il nostro emigrante. Il participio passato nominato sarà stato messo al maschile per attrazione della parola immediatamente precedente, Grantronco (e per esigenze di rima).
[73] Molto probabilmente Franklin Street, nel pieno centro della città, vicino alla foce del fiume Chicago. In questo quartiere si concentravano gli emigranti di origine genovese e lucchese. La forma Francolino (più avanti, II 7, lo stesso nome è reso con Frankilino) converge stranamente con il nome del paese menzionato nell’Orlando Furioso, XV 2.4.
[74] ‘alla mia destinazione’.
[75] Ms.: dicciava.
[76] Ms.: frà.
[77] Ms.: a l’uogo. Nel testo si verifica spesso l’omissione di –l nell’articolo o nella preposizione articolata davanti a parola che comincia con l-, anche se in altri passi il determinante che precede il sostantivo è scritto correttamente.
[78] Un passaggio coperto per accedere al cortile in mezzo all’isolato come quelli descritti da Amy A. Bernardy per i blocks di St. Louis, Missouri: “Ogni casa, quella avanti e quella addietro, occupa tutta la larghezza del “lot” e l’ingresso al cortile fra le due case è un tunnel o gattaiola che passa sotto parte dell’edificio […] se sono a livello della strada non presentano gravi inconvenienti e servono molto alla ricreazione dei ragazzi essendo freschi l’estate e al riparo dalle intemperie d’inverno” (A. Bernardy, Italia randagia attraverso gli Stati Uniti, pp. 209 e 210).
[79] Ms.: punto e virgola fra quegli e ed’io.
[80] Ms.: due punti (:) dopo dissi.
[81] Nota dell’autore: “saloon) specie di osteria”.
[82] Scomparsa della preposizione a davanti a verbo che comincia con la stessa vocale nelle locuzioni con andare o venire + infinito: fenomeno frequente nei testi popolari, anche antichi, e pressoché regolare nel poema.
[83] Cfr. Gerusalemme liberata, nell’ambasceria di Alete ed Argante a Goffredo di Buglione: “Ma la destra si pose Alete al seno, / e chinò il capo, e piegò a terra i lumi, / e l’onorò con ogni modo a pieno / che di sua gente portino i costumi” (II 61.1-4).
[84] Palatalizzazione del pronome indetta dalla vocale iniziale della parola seguente.
[85] Cfr. Orlando Furioso (Sacripante all’apparizione di Angelica): “non mai con tanto gaudio o stupor tanto / levò gli occhi al figliuolo alcuna madre, / ch’avea per morto sospirato e pianto, / poi che senza esso udì tornar le squadre; / con quanto gaudio il Saracin…” (I 53.1-5). Nella resa del poeta popolare il periodo si trasforma in una costruzione con dislocazione a sinistra e ripresa del pronome. Il dativo del pronome è gli, secondo l’uso comune.
[86] Il registro delle anime della parrocchia di Colognora nel 1900 annota, accanto al nome di alcuni cugini dell’autore, “In America”. Questo potrebbe essere quell’Andrea Del Carlo che troveremo come compagno del protagonista durante la “campagna” (II 119) e forse partecipa alla ricerca del lavoro (si noti il soggetto plurale quando si ebbe quest’uomo ritrovato, II 6.1).
[87] Da completare idealmente con un ‘date’ (quando le destre si fur date di piglio).
[88] Ms.: un’altro. Il fratello sarà Giacinto, più giovane di un anno dell’autore e già residente in America da un certo tempo, visto che il registro delle anime della parrocchia di Colognora del 1900 registra come nati in America due dei suoi figli, rispettivamente nel 1890 e 1891.
[89] Cfr. Paris e Vienna: “Doglia così giammai da me sentita” (V 37.8), “allegrezza da me non mai sentita?” (VIII 57.2), “d’abito non mai più da lui portato” (VII 13.6).
[90] ‘né più faccio appello alla vostra attenzione’? Il significato del verbo in questo contesto rimane incerto.
[91] Sotto la frase il timbro col nome Andreoni Antonio.
[92] Campagna va inteso nel senso di ‘stagione, periodo di lavoro, particolarmente manuale’, secondo la definizione dell’Arlia: “quel tempo che dura un lavoro ora la dicono ‘Campagna’; e però abbiamo la ‘campagna bacologica’ per l’allevamento dei bachi da seta; la ‘campagna granifera’ per la segatura e la trebbiaatura del grano”. (GDLI)
[93] Un attacco molto simile (“Se Apollo assisterà la mente mia”) in una stampa popolare in ottava rima dedicata alle gesta del bandito Gnicche, edita più volte da Salani (1874, 1878, 1910). L’edizione del 1878 (Delitti arresto e morte / del capoassassino / Federigo Bobini / detto Gnicche / scappato dalle carceri di Arezzo, ed / ucciso dai Carabinieri reali presso / Tegoleto), in 35 ottave, porta nell’explicit il nome del verseggiatore: “Son di Ponte Burian, Giovan Fantoni”. Cfr. Giannini, La poesia popolare a stampa, s. v. “Gnicche”.
[94] Ms.: punto e virgola dopo viaggio.
[95] Ms.: un’altro.
[96] Formula narrativa tradizionale. Cfr. Prologo in ottave al Contrasto tra un vecchio avaro e un guerriero: “In questa stanza, dove ascolterete / Cose, che assorti di stupor sarete” (I, 7-8), in Teatro popolare lucchese a cura di G. Giannini, Torino-Palermo: Carlo Clausen 1895.
[97] Cfr. Paris e Vienna: “Signor, vi dissi nel canto passato” (VI 4.1).
[98] Ms.: ne.
[99] ‘Un’altra vicenda, degna d’esser raccontata, si è conclusa’, o forse ‘mi è venuta in capo’?
[100] L’interpretazione di ascoltatori contemporanei ma dello stesso ambiente linguistico e culturale dell’autore ha optato per il sì rafforzativo, o pleonastico. Il si pleonastico è reliquia di un uso linguistico medievale e potrebbe essere stato trasmesso al nostro dalla lettura di narrazioni romanzesche.
[101] Ms.: in’aspettata.
[102] Travestimento dell’espressione ‘fare un buco nell’acqua’.
[103] Naturalmente è l’inglese saloon.
[104] Si pleonastico, come spesso nel testo.
[105] Brusco passaggio da discorso indiretto a discorso diretto.
[106] Ms.: gl’uomini.
[107] A testimonianza delle pratiche poco scrupolose dei padroni italiani.
[108] La trasformazione di ‘ciceroni’ in ‘cicerini’, realizzata evidentemente per esigenze di rima, sembra però includere anche una sfumatura ironica.
[109] I due punti nel manoscritto.
[110] Ms.: gl’uomini.
[111] Nel ms. il punto interrogativo è dopo venire. Una nota dell’autore avverte: “colorato) stato dell’america”.
[112] Ms.: vuol’esser quì.
[113] Nota dell’autore: “duro) 5 lire”. Il duro (peso duro) era una moneta spagnola che valeva, nell’Ottocento, cinque pesetas. Non so da dove l’autore abbia ricavato questo termine.
[114] Lo scudo fu la moneta del Granducato di Toscana fino all’unificazione. Nel linguaggio degli italoamericani però il termine scudo si specializzò ad indicare il dollaro, forse perché il valore di questa moneta (L. 5,44 circa) era vicino a quello dell’antico scudo granducale (L. 5,88). Cfr. Giorgini-Broglio, Novo vocabolario della lingua italiana secondo l’uso di Firenze, Firenze: Galileiana, 1870-1897, s. v. ‘scudo’.
[115] Nota dell’autore: “altro stato dell’america”.
[116] un è la forma toscana della negazione non; in sardate (‘saldate’) si realizza il rotacismo della l in sillaba complicata tipico del vernacolo lucchese.
[117] Ms.: Oh! Italia.
[118] Nel digramma ss l’autore aveva scritto dapprima una z, poi corretta in s; la seconda lettera è una s.
[119] Il linguaggio sembra evocare un qualche canto popolare d’emigrazione.
[120] Cfr. Paris e Vienna: “Né negli antichi, o nei moderni amanti / Non c’è, non ci sarà, né mai trovato / Abbiamo uno che soffra affanni tanti” (II 83.1-3).
[121] L’esazione qui deplorata dall’Andreoni corrisponde a un fenomeno ben noto agli studiosi dell’emigrazione. Dal momento che il Foran Act del 1885 aveva proibito “l’importazione di forze lavoro […] su contratto precedentemente stipulato nel paese di origine”, gli immigranti dovevano trovarsi un lavoro una volta arrivati negli Stati Uniti, con tutte le difficoltà che si possono immaginare pensando all’ignoranza della lingua e delle istituzioni del paese d’immigrazione (E. Sori, L’emigrazione italiana dall’Unità alla seconda guerra mondiale, p. 327). E gli immigranti non potevano permettersi di rimanere a lungo sulle spese, senza lavoro. Ecco allora un compaesano, già residente negli Stati Uniti e capace di parlare l’inglese e di avere rapporti con datori di lavoro, riunire un gruppo di emigranti secondo le esigenze delle compagnie in cerca di braccia, divenendone il boss, o padrone. Questi fungeva da intermediario fra gli emigranti e le istituzioni americane in qualunque loro bisogno, in forma però completamente non ufficiale, e traendone ogni possibile profitto. La tariffa imposta agli emigranti per far parte del gruppo che avrebbe avuto il lavoro si chiamava bossatura; in più, il padrone, o boss, riscuoteva spesso una commissione anche dal datore di lavoro al quale aveva procurato gli operai. Il sistema dette spesso luogo ad abusi, specialmente nel caso di lavori successivi di breve durata, quando gli uomini venivano licenziati e dovevano pagare ogni volta la bossatura per essere riassunti. Naturalmente la transazione doveva rimanere segreta, poiché il padrone non era un agente di collocamento regolare (H. Nelli, The Italian Padrone System, p. 158).
[122] Cfr. il proverbio “Fin ch’uno ha denti in bocca, non sa quel che gli tocca”, riportato fra i Proverbi toscani raccolti e illustrati da Giuseppe Giusti, ampliati e pubblicati da Gino Capponi, Firenze: Le Monnier, 1873, p. 256 (sotto la categoria “Miserie della vita, Condizioni dell’umanità”).
[123] Ms.: ben’io.
[124] Cfr. Ricciardetto: “Se parti, io resto misero e infelice” (I 54.6).
[125] Nel 1906 il tasso di cambio ufficiale era di cinque lire e quarantaquattro centesimi per un dollaro. Sembra quindi che l’Andreoni abbia pagato circa undici dollari, anche se egli parla in un primo tempo di cinque lire e poi di altri cinque dollari. Una bossatura di dieci dollari era comune per lavori che durassero cinque o sei mesi (H. Nelli, The Italian Padrone System, p. 158). Un’agenzia di collocamento regolare avrebbe invece richiesto, secondo lo Sheridan, una commissione di due dollari, o il 10% del salario del primo mese (F. J. Sheridan, Italian, Slavic, and Hungarian Unskilled Immigant Laborers in the United States, “Bulletin of the Bureau of Labor,” 72 [settembre 1907], pp. 414-415).
[126] Ms.: i lorenzini. Il racconto dell’Andreoni testimonia dell’approssimazione con cui venivano stipulati i contratti dai padroni italiani: gli accordi per quanto riguardava il luogo, il compenso e le condizioni di lavoro sono puramente verbali, a differenza di ciò che la legge prescriveva alle agenzie di collocamento debitamente patentate, le quali dovevano fornire al lavoratore spedito in altro luogo una copia, redatta in una lingua da lui capita, del modulo su cui erano registrati il nome e l’indirizzo del datore di lavoro, il nome e l’indirizzo del lavoratore, la natura dell’impiego, il numero delle ore, il salario, la destinazione del lavoratore e il metodo di trasporto. È vero però che questa pratica fu prescritta soltanto con la legge del 27 aprile 1904, e fu applicata solo dopo un emendamento apportato nel 1906 (F. J. Sheridan, Italian, Slavic and Hungarian, p. 415).
[127] Ms.: north da kota. Nota dell’autore: “altro stato”.
[128] Si tratterà della Chicago Great Western, la linea ferroviaria che congiungeva Chicago a St.Paul e che partiva dalla stazione Grand Central, all’incrocio fra Wells e Harrison (Cfr. E.F. Carter, Famous Railway Stations of the World, London: Frederick Muller, 1958 e James E. Vance, The North American Railroad. Its Origin, Evolution, and Geography, Baltimore and London: The Johns Hopkins University Press, 1995, p, 142).
[129] Spesso le compagnie ferroviarie procuravano il trasporto gratuito delle squadre di lavoro fino a destinazione.
[130] St. Paul, Minnesota. Paul è da considerare bisillabo per conservare la misura del verso.
[131] Ms.: assini. Cfr. l’espressione analoga, con certe facce come gli assassini I 29.6.
[132] ‘A gambe divaricate, come barcollanti per la stanchezza’?
[133] I due punti nel manoscritto.
[134] ‘Bestemmie, imprecazioni’, per estensione del significato primario, ‘giuramento’. L’accezione è registrata dal Petrocchi che definisce il termine “mont[anino] e contadino”.
[135] Il pronome dativo è gli anche al plurale, secondo l’uso comune dell’italiano popolare. Cfr. Nieri, Postfazione al Vocabolario luchese, p. 280.
[136] La forma con scempiamento della m è presente nel lucchese e autorizzata anche dall’esempio ariostesco. Questo luogo si oppone però a tutte le altre occorrenze in cui il verbo è scritto con due m.
[137] Cittadina sul fiume Heart, affluente del Missouri. Fondata nel 1882 con l’arrivo della ferrovia, prese il nome da W. S. Dickinson, senatore dello stato di New York, che aspirava a fondare una città nell’Ovest. Era il centro di approvvigionamento per le comunità minerarie delle Black Hills ed era divenuta comune due anni prima, nel 1899.
[138] L’uso del pronome accusativo per il nominativo (te), il troncamento dell’infinito (cantà), la propagginazione del dittongo (glioria) sono tutti tratti del vernacolo lucchese. Cfr., in particolare per quest’ultimo fenomeno, S. Pieri, Fonetica del dialetto lucchese, pp. 125-126: qui si ha la conservazione del dittongo finale insieme alla propagginazione nella prima sillaba. Soprattutto in questa prima parte del poema le forme connotate dialettalmente o francamente volgari sembrerebbero usate coscientemente dall’autore in funzione espressiva. Si noti comunque la frequenza, dappertutto nel testo, del che polivalente, spesso difficile da distinguere da una congiunzione causale (ché).
[139] Ms.: oh.
[140] Nell’interlinea l’autore ha aggiunto a lapis una variante per il primo verso: E colà giunti ci fecer fermare / ma …
[141] Le squadre di manutenzione delle ferrovie erano infatti alloggiate in vagoni (camp cars), che potevano essere facilmente attaccati a una locomotiva e trasportati dovunque fosse richiesto il loro lavoro. Numerose le testimonianze relative a questa sistemazione nei resoconti di altri emigranti. Raffaello Lugnani, per esempio, che redasse anche lui un resoconto in versi (in sestine) delle sue varie esperienze e negli stessi anni dell’Andreoni lavorò alla ferrovia presso Grass Lake in California, la descriveva così: “Tutti a dormire andammo nei vagoni, / su di un binario apposta preparati […] Ritornammo al vagone tutto rotto / che della paglia c’era per dormire; / io mai dimenticar potrò quel posto: / meglio il maiale vive nel porcile; / per fortuna noi siam povera gente / e il mal non c’impressiona proprio niente. […] Il tetto del vagone malandato / scolava l’acqua da tutte le bande…” (Raffaello Lugnani, Sulle orme di un pioniere, a cura di Aquilio Lugnani, Massarosa [Lucca]: 1988). Pasquale D’Angelo racconta: “We went to live in a box car located in the center of the yard where a few men were already staying. It was a broken down affair which scarcely protected us from the rain. In winter frost and ice were near my ill-kept bed. […] Living in the box car we were always handy in case there should be a wreck or other trouble. We were liable to be called out at any hour – usually in the middle of the night. […] I cannot think of the old box car without a feeling of regret. It was a wonderful place for studying the ways of insects. Whenever it rained, water streamed in on all sides. But it was cozy; we had a fine big stove and plenty of coal which we picked up from the ground after quitting time” (Pascal D’Angelo. A Son of Italy, New York: The McMillan Co., 1924, pp. 116 e 157). Testimonianza lirica di un’esperienza simile, anche se in circostanze diverse, è quella di Arturo Fornaro: “In diciotto si dormiva in un vagone / sul binario morto. / In diciotto, allo Scalo Farini. / Con i piedi fasciati di stracci si dormiva in diciotto / nel vagone sfasciato dalla guerra. / Era la notte di Natale / e nessuno parlava di Cristo. / Nessuno voleva parlare di Cristo…”, citato da J. J. Marchand, Un’antologia ideale della letteratura dell’emigrazione italiana in Svizzera, in La letteratura ell’emigazione. Gli scrittori di lingua italiana nel mondo, Torino: Fondazione Agnelli, p. 35. E si veda anche Carmine BIagio Iannace, La scoperta dell’America, Padova; Rebellato, 1971, p. 85-86 e Dominic Ciolli, The Wop in the Track Gangs, “The Immigrants-in-America Review”, II (1916), pp. 61-66 (citato da H. S. Nelli, The Italian Padrone System, pp. 161). L’idea dei vagoni letto si sviluppò da questi bunk cars, o ‘vagoni a cuccette’ (cfr. R. E. Riegel, The Story of the Western Railroads, New York: MacMillan, 1926, p. 268).
[142] La misura del verso si ristabilisce col troncamento dell’infinito (occupa’).
[143] Confusione col verbo ‘spettare’.
[144] Costruzione a senso.
[145] Un soldo valeva cinque centesimi, dunque quattro lire. Come si vede, la squadra di manovali deve organizzarsi da sola per avere alcuni servizi essenziali, prima di tutti quello della cucina.
[146] Fiorentinismo, usato forse in senso espressivo.
[147] Fiorentinismo per ‘donna maritata’. Cfr. F. Romani, Toscanismi, Firenze: Bemporad, 1907.
[148] Ms.: od’altra.
[149] La cacolalia esprime con forza la stizza e il disappunto del protagonista.
[150] Le uova.
[151] Passaggio da -m a –n finale nella forma verbale tronca, comune nel vernacolo lucchese e nel linguaggio popolare toscano, ma con esempi rinascimentali illustri (p. es. Morgante XVII 49.5, 89.6, 92.2; Orlando Furioso III 63.7, XVII 5.6, XIV 40.1, ecc.).
[152] La tristezza della vita coronata dalla morte è naturalmente un topos, condensato anche nel detto popolare “Oh Signore! Quanto si tribbola e poi si muore”, riportato dal Nieri fra i suoi Proverbi toscani specialmente lucchesi, “Atti dell’Accademia lucchese”, XXVII e, più recentemente, nell’edizione a cura di Guglielmo Lera, Lucca: Azienda Grafica Lucchese, 1965, p. 56.
[153] Da intendere ‘e delle pene che ho già sofferte, io ne ho in man le prove’.
[154] Anacoluto provocato da un improvviso “cambiamento di progetto”.
[155] Ms.: ed’io son quì.
[156] In triste si ha un metaplasmo di coniugazione comune nel linguaggio popolare ma anche nel registro letterario. Interessante il linguaggio teatrale, ma la frase risulta poco coerente: il soggetto di sendo è sempre l’io del verso precedente o la frase diventa improvvisamente impersonale? E teatro andrà inteso come ‘spettacolo’, ‘protagonista’ o ‘spettatore’? Comunque il senso profondo sarà che il protagonista si sente profondamente implicato in una vicenda tristissima, tanto straordinaria che se ne potrebbe fare uno spettacolo teatrale.
[157] Cfr. Paris e Vienna: “Che mi conceda tanta provvidenza, / Acciò sopporti tutto con pazienza” (VI 9.7-8). Analoghe considerazioni gnomiche, anche se con spirito diverso, nelle memorie del Lugnani: “Ma il povero, non se la dee pigliare, / che già punito assai è ingiustamente: / grandi fatiche e sudori da affrontare / e tanto soffre che morir è niente; / il peggio è che il soffrire fa sperare / e il povero s’illude di cambiare.” (Sulle orme di un pioniere, p. 180)
[158] La misura del verso si restituisce col troncamento dell’infinito (gira’). Probabile allusione alle esperienze di lavoro in Corsica, attestate dalle memorie di conterranei. Era tradizionale nella Lucchesia l’emigrazione stagionale in Corsica per lavori di bonifica dei terreni, abbattimento di selve, impianto di vigneti e oliveti. Il più antico documento relativo a tale movimento è una sollecitazione della Repubblica di Genova, del 1642, in cui si chiede alla Repubblica di Lucca di “informare i «sudditi delle montagne» che in Corsica c’è possibilità di lavoro soprattutto per la coltivazione dei terreni e che il trattamento e la paga sono buoni”. Nei primi decenni dell’Ottocento questa emigrazione periodica comincia a coinvolgere anche gli abitanti della pianura intorno a Lucca (D. Rovai, Lucchesia terra di emigrazione, Lucca: Maria Pacini Fazzi, 1993, pp. 19-20).
[159] Ms.: quì. Trovo è forma contratta del participio passato, tipica del vernacolo lucchese, che ritorna nel provo del v. 8.
[160] Ms.: in’Italia. Il servizio militare era fatto di norma in una regione diversa da quella d’origine.
[161] Ms.: ed’ora quì in’America.
[162] Si noti l’alternanza delle forme del participio passato italiana e lucchese nei vv. 6 e 8. Per la rima trovo : provo cfr. Paris e Vienna: “Tu guarda in che periglio mi ritrovo / Che appena nato sì gran pena provo” (I 21.7-80).
[163] Forma pisano-lucchese per ‘panettiere’. Un esempio di panattieri anche nella Devotissima rappresentazione di Giuseppe Figliuolo di Giacobbe con la biografia del mesesimo, Volterra: Sborgi, 1863, p. 18.
[164] Ms.: mangio. Non sembra plausibile interpretare la forma come un passato remoto, sia perché manca l’accento, che l’Andreoni segna normalmente sui verbi, sia perché una sillaba accentata in questa posizione disturberebbe il ritmo del verso. Un’alternativa potrebbe essere correggere ne in n’è e interpretare mangio come participio passato contratto.
[165] Dunque non era il caso di mettersi a costruirlo.
[166] Situato fra Belfield e il fiume Little Missouri, Sully Springs non era un paese vero e proprio ma un semplice stopping point, dove la linea ferroviaria era raddoppiata per permettere ai treni di fermarsi e così caricare e scaricare le merci. La stessa funzione avevano altre località menzionate più tardi nel poema (Tusler, Conlin, Shirley, Sedalia, Hoyt).
[167] Fosse scavate lungo la strada ferrata per raccogliere lo scolo delle acque (‘trincee’). Dalla Britannica Macropedia: “A number of railroads carried out ditching programs in which the drainage ditches along the roadbed were deepened” (vol. 28, p. 794).
[168] Dall’inglese boss: ‘soprastante, caposquadra’.
[169] Naturalmente è sottinteso un verbum dicendi, implicito nella nozione di telegramma. La cittadina di Medora, presso il Little Missouri, fu così battezzata dal marchese De Mores, ricco proprietario di bestiame, in onore di sua moglie. Originario della Francia, e arrivato nella regione nel 1883, il De Mores tentò di moltiplicare le sue fortune impiantando una fabbrica per la conservazione della carne, ma l’impresa non ebbe successo, e dopo alcuni anni il De Mores tornò in Europa. Oggi la sua abitazione e la ciminiera, unico vestigio rimasto della fabbrica, sono considerati monumenti storici. Presso Medora si trova oggi l’ingresso alla sezione meridionale del Parco Nazionale intitolato a Theodore Roosevelt, che fu proprietario di ranch in quella zona dal 1883 al 1886.
[170] Evidentemente un prezzo esorbitante. Uno dei rari casi di rima imperfetta.
[171] Fra Sully Springs e Belfield. Una delle cittadine create con l’arrivo della ferrovia e intitolata al nome del generale James Barnet Fry (1827-1894), figura di rilievo nel corso della guerra civile e poi della scena politica e militare negli anni della costruzione della ferrovia.
[172] Sarà stato un prairie rattler (Crotalus viridis), una specie della famiglia dei serpenti a sonagli che vive nelle regioni centrali e occidentali degli Stati Uniti ed è comune ad ovest del fiume Missouri.
[173] Cfr. Ricciardetto: “d’una feroce e velenosa biscia, / che […] suona un campanello quando striscia” (X 18.3-5).
[174] Ms.: oh!.. dolce sorte.
[175] Si tratterà di un soprannome. Cfr. Nieri, Postfazione al Vocabolario Lucchese: “nelle Campagne specialmente predomina anche da noi il vezzo di dare un nomicchiolo, o nomignolo, ad ognuno, di guisa che certi sono conosciuti quasi solo per mezzo di quest’appellativo acquisito, e di qualcuno spesso il vero nome è ignorato anche dai più stretti amici e conoscenti.” (p. 276)
[176] La spina dorsale.
[177] L’incontro di serpenti velenosi è un avvenimento spesso riportato nei racconti degli emigranti italiani, in Nord e in Sud America. Vedi, per esempio, C. B. Iannace, La scoperta dell’America: “Quel giorno per guardare il pozzo [di petrolio] mentre rimettevo una traversina per poco non misi le mani su una serpe a sonagli. Il «boss» la vide o per meglio dire la sentì e gridò «Poison snake!» Tutti alzarono le mani guardinghi eccetto io che ci stavo proprio sopra. Era una serpegnola come le nostre in Italia solo che aveva l’estremità della coda arrotondata e girata in aria che scuoteva leggermente emettendo un suono come un grillo”, pp. 89-90; e la lettera di Francesco Costantin spedita da Colonia Angelica (S. Paolo, Brasile) l’8 giugno 1889: “e quel che è peggio che non trovi rannicchiato sotto le piante qualche terribile Crotalo (serpente a sonaglio) dei quali ebbi la sorte di trovarne anch’io, la cui morsicatura è insanabile. […] Poco lontano da dove abito io fu ucciso un serpente boa che ha pesato 15 chilogrammi” (citato da Emilio Franzina, Merica! Merica! Emigrazione e colonizzazione nelle lettere dei contadini veneti in America Latina 1876-1902, Verona: Cierre, 1994, p. 173).
[178] L’autore sapeva lavorare come muratore. Non sorprende quindi trovarlo impegnato a costruire il forno.
[179] Nel senso di ‘bizzarri’, o semplicemente con una particolarità nel carattere che li metteva in evidenza.
[180] Ms.: o.
[181] Nota dell’autore: “stazione”. Francesismo acquisito forse durante le ‘campagne’ in Corsica.
[182] Nota dell’autore: “treno da caricare terra e altre cose”. Cfr. l’inglese working (o work-) train : il carro che trasportava i manovali e il materiale necessario a eseguire i lavori lungo la ferrovia, e che evidentemente era stanziato presso il ‘campo’ dei lavoratori.
[183] Conflazione delle espressioni “come Dio volle” e “come a Dio piacque”. La formula è registrata anche dal Nieri: “Così altra volta sentii dire «A Dio volendo». Quella persona aveva cominciato coll’idea di dire «A Dio piacendo» e finì come se avesse cominciato «Dio volendo» (I. Nieri, Dei fatti transitori proprii delle lingue nell’atto in cui sono parlate, “Atti della Reale Accademia di Scienze Lettere e Arti di Lucca”, XXVIII, pp. 235-289 [comunicazione letta il 15 marzo 1895], citato da I. Nieri, Scritti linguistici, a cura di Amos Parducci, Torino: Società Editrice Internazionale [1944], p. 80. Il Nieri ne parla come di un’espressione assolutamente occasionale, ma il fatto che essa ritorni in questo poema, e più volte, fa pensare piuttosto a una formula consolidata nel linguaggio del luogo.
[184] ‘Ispettore ferroviario’, dall’inglese road master. “A railroad maintenance official in charge of a division of from 50 to 150 miles of roadway”, Webster’s Third New International Dictionary, Chicago et al., William Benton Publisher, 1966.
[185] Deformazione di ‘guasto’, comune nel lucchese. L’epentesi di r è segnalata dal Nieri nella sua Prefazione al Vocabolario lucchese, p. XXVIII e dal Pieri, p. 118.
[186] Rima imperfetta.
[187] Paraipotassi con l’apodosi introdotta dall’avversativa ma. L’espressione “diversi auspici”, reminiscenza degli auspici tratti dai sacrifici romani, sarà tratta da una qualche fonte letteraria; qui significa forse che quel fumo dava luogo a diverse ipotesi circa la sua causa.
[188] Si tratta con ogni probabilità di una vena di lignite accesa, come se ne trovano nella regione. Una Burning Coal Vein costituisce ancor oggi un’attrazione turistica nel Theodore Roosevelt National Park, non lontano da Sully Springs e Medora.
[189] Movenza retorica di tono epico-cavalleresco. Una formula simile nelle memorie di Francesco Guadagnini: “Chi avesse visto rappresentare l’inferno del poeta Dante; avrebbe detto: Voi siete quei poveri infelici…” (Q. Antonelli, “Io ò comperato questo libro”. Lingua e stile nei testi autobiografici popolari, p. 234).
[190] Ms. : parentesi intorno a curioso.
[191] Ms.: a.
[192] ‘colosso, figura gigantesca’.
[193] Forse deformazione di antio per ‘antico’, per ragioni di rima. Una possibilità più remota è che la parola sia da ricollegare ad Anteo, il mitico gigante abbattuto da Ercole (“la tua forza avanza di gran lunga quella di Ercole Anteo” Storia completa dei Paladini di Francia, Milano: Bietti, 1908, p. 47), nel qual caso Anteo sarebbe la testa del sintagma e scritto un attributo; ma nel manoscritto anteo ha l’iniziale minuscola.
[194] Che cosa fosse quel colosseo rimane inspiegato.
[195] Per la rima giunto : punto in un contesto semantico simile cfr. Paris e Vienna: “Odoardo, fratel, guarda in che punto / della mia gioventù mi trovo giunto?” (I 49.7-8)
[196] Il significato della parola non è chiaro. Forse ‘cosa da ricevere’?
[197] Storpiatura di Glendive, cittadina alla confluenza del torrente Glendive e del fiume Yellowstone. La stazione di Glendive segnava il confine fra la divisione ferroviaria del Missouri e quella dello Yellowstone, per cui si spiega il cambio del personale viaggiante. Il nome sconosciuto è stato accostato alla parola italiana ‘grande’.
[198] ‘Frenatore’, dall’inglese brakeman (niente a che fare con brick, mattone). Interessante il tentativo dell’autore di conferire una grafia inglese a una parola che doveva conoscere soltanto oralmente.
[199] ‘Fuochista’, dall’inglese fireman.
[200] ‘Squadra’, dall’inglese gang: anglicismo entrato anche nell’italiano popolare, portato dagli emigranti di ritorno.
[201] ‘Litigio’. La voce conquista si trova fra le Giunte e Correzioni al Vocabolario lucchese del Nieri con la spiegazione “lo stesso che compista. Che il più comune compista sia un’alterazione di conquista?” E, sotto la voce compista: “Contesa a parole di due che stanno a tu per tu e nessuno cuol cedere. Contrasto.” Il Pieri (Fonetica del dialetto lucchese, p. 128), segnalando che la voce era registrata nel Vocabolario dell’uso toscano del Fanfani, offriva per compista l’etimologia com-pistare, da confrontare con pistello; ma certo nella variante adottata dall’Andreoni sarà da avvertire l’incrocio con la parola questione, quistione.
[202] Ms.: il numero dell’ottava manca per la consunzione del margine.
[203] Intervento d’autore, simile a quello che si trova nel Paris e Vienna: “Mira pur quanto vuoi che il mirar solo / Toglier non ti potrà dal petto il duolo!” (I 78.7-8).
[204] Forma toscana della negazione ‘non’.
[205] Fallon, cittadina fondata alla confluenza fra il torrente O’Fallon e lo Yellowstone.
[206] ‘Piovìggina’. Il Nieri e il Malagoli registrano la voce come piovicinare e il Nieri precisa che, in piovicina, l’accento cade sull’ultima i.
[207] Verso ipermetro, da aggiustare forse con una pronuncia laorar.
[208] Cfr. Paris e Vienna: “Or lasciamo il Sultano in sua malora / […] E dirò del Delfin” (VIII 8.1 e 5).
[209] Cfr. nota a II 45.6.
[210] Fiorentinismo.
[211] Cfr. nota a II 22.8.
[212] Altro esempio di paraipotassi con la frase principale introdotta dalla congiunzione avversativa ma.
[213] Il femminile è probabilmente da intendersi con valore di neutro, come quando si dice “questa è bella!”.
[214] Cfr. inglese board: dal significato arcaico di ‘tavolo’, il termine passò a significare il cibo che è sulla tavola, da cui ‘provviste alimentari quotidiane’, ma anche il gruppo di persone che siedono intorno a un tavolo, con funzioni di direzione o consulenza. L’Andreoni sembra indicare con questo termine volta per volta sia le provviste alimentari, come in questo passo, sia il gruppo ristretto scelto dalla squadra perché provvedesse alle necessità quotidiane del vitto e della generale conduzione del campo (cfr. il comitato di 55.7), sia il gruppo di operai che aderivano a tale organizzazione collettiva (cfr. 54.3-4).
[215] Cfr. l’inglese lunch, italianizzato e interpretato come formato da nome più articolo.
[216] Il participio passato è accordato con l’oggetto, e con fagioli anziché con piatto, per esigenze di rima.
[217] Cfr. nota a II 14.5.
[218] La misura del verso si restituisce con troncamento dell’infinito (fa’) tipico del vernacolo lucchese.
[219] Ms.: infuria.
[220] Forma del congiuntivo tipica del vernacolo lucchese e del toscano popolare.
[221] Ms.: un’altro.
[222] Frase anacolutica. Possibile la seguente interpretazione: la superbia e la diffidenza (aristocrazia) che era in tanti li induceva a supporre che il Lorenzini si mettesse in tasca dei soldi indebitamente. Le mormorazioni e gli incidenti ai quali l’Andreoni accenna, un po’ sibillinamente, richiamano alla mente gli innumerevoli abusi ai quali dette luogo il rapporto che si stabiliva fra gli emigranti e il compaesano che aveva trovato loro lavoro, e che divenne tristemente noto col nome di padrone system. Le numerose denunce da parte di assistenti sociali e di commissioni d’inchiesta contribuirono a determinarne il graduale tramonto, ma forme attenuate di sfruttamento continuarono fino a ben addentro gli anni ’20. Chicago “was an important padrone stronghold, partly because of that cityls position as a railroad center and partly because of its geographical location.” (H. Nelli, The Italian Padrone System, p. 158; si vedano anche J. Koren, The Padrone System and Padrone Banks, “United States Department Labor Bulletin,” 9, March 1897 e F. J. Sheridan, Italian, Slavic, and Hungarian Unskilled Immigant Laborers in the United States, “Bulletin of the Bureau of Labor,” 72 [settembre 1907], pp. 403-486)”.
[223] ‘Una decina’.
[224] Imitazione (a sproposito) di una formula burocratica per indicare denominazioni o cariche anteriori.
[225] Paese della provincia di Firenze, non lontano da Altopascio. Nella parlata locale è indicato sempre con l’articolo, e l’uso è confermato dal Dizionario geografico fisico storico della Toscana di Emanuele Repetti, Firenze, Tip. Tofani, 1835.
[226] La rima torna perfetta se si applica a scelte il rotacismo lucchese.
[227] Sottintesa un frase reggente: ai cinque revisori fu dato l’incarico d badare a che nel bordo non mancasse niente.
[228] ‘Piano tenuto nascosto’. Cfr. Pia de’ Tolomei: “Nello si turba nel sentir l’arcano” (p. 7), “Abbada bene di eseguir l’arcano” (p. 14).
[229] Ms.: che scrisse di sua man mentre cassato con una riga trasversale nell’interlinea fra il quinto e il sesto verso.
[230] Sottinteso un verbum dicendi.
[231] Tenendo a mente l’ingiuriose dell’ottava precedente (v. 5), si confronti Orlando Furioso, V 39.5: “Ma perché a lei son troppo ingiuriose….” (le vanterie di Polinesso a proposito di Ginevra).
[232] ‘Reso pubblico, fatto conoscere ai membri della ghenga’.
[233] In seguito alle denunce e alla pressione dell’opinione pubblica, le compagnie ferroviarie incominciarono, dopo il 1900, a scoraggiare l’azione dei padroni; uno dei metodi impiegati fu di collocare “railroad detectives dressed like workers all along their lines to report the actual conditions under which their employees worked. Padroni were faced with evidence of their wrongdoings and given the alternative to reform or dismissal” (H. Nelli, The Italian Padrone System, p. 167). Per quanto dal racconto dell’Andreoni non risulti il carattere di ‘agente segreto’ del Dini, ché anzi ne traspare disagio e vergogna per una ‘spiata’ alla quale l’autore non sembra prestar troppa fede, è possibile che il gesto del Dini abbia contribuito a mettere alle strette il Lorenzini che di lì a poco, come vedremo (II 146-147), sparirà dalla circolazione.
[234] La stazione di Tusler è oggi scomparsa. Situata fra Miles City e Shirley, distava una decina di miglia dalla città. Originariamente chiamata Dixon, nel 1896 prese il nome di uno dei primi allevatori di bestiame della zona, Henry Tusler. Un membro della famiglia Tusler in una foto di Evelyn Cameron (Donna M. Lucey, Photographing Montana 1894-1928: The Life and Work of Evelyn Cameron [New York: Alfred Knopf, 1991])
[235] Città sorta intorno all’antico presidio militare di Fort Keogh, alla confluenza del fiume Tongue nello Yellowstone. Fondata nel 1887, le fu dato il nome di un generale dell’esercito che aveva contribuito a debellare la minaccia degli Indiani nella zona.
[236] In realtà la spiegazione non appare molto chiara. Forse il giorno di festa facilitò uno spostamento avvenuto con la complicità di chi decise di trasferire la ghenga all’insaputa dei superiori (sensa alcun bisbiglio).
[237] ‘Che ogni anno suole essere dedicato a festeggiamenti’. Ms.: ciascun’anno.
[238] ‘Fourth of July’, festa dell’Indipendenza americana.
[239] Da sottintendere un verbo essere davanti al participio passato compiuto per renderlo un modo finito e correggere così l’anacoluto.
[240] Rima imperfetta.
[241] V. nota a I 19.4.
[242] Costruzione impersonale. L’evento fu registrato anche dal “Daily Yellowstone Journal” di Miles City che nel numero del 5 luglio, in un articolo in prima pagina, riportava : “The train from the west was delayed at Dewey and other places by dirt and gravel from the high banks being washed over the track. The train from the east was delayed till noon by a washout near Tusler and there are 17 washouts reported east of Miles City and the city became the temporary terminus of the road with the result that several train loads of unexpected visitors were dumped off for the celebration.”
[243] Mancano evidentemente degli ausiliari per rendere modi finiti i participi passati.
[244] ‘Con precisione’?
[245] ‘Come a noi permettono (i mezzi a nostra disposizione)’: come se dicesse che non risce a descrivere fino in fondo i danni causati dalla burrasca.
[246] Italianizzazione dell’inglese machine, con suono palatale e accento sulla penultima.
[247] Paraipotassi.
[248] Ms.: su luogo ovè. Cfr. nota a I 36.3.
[249] Cioè un treno passeggeri.
[250] Ms.: non’ostante. ‘Ciononostante’.
[251] Ms.: un’istante.
[252] Ms.: frà. ‘Dopo brevissimo tempo’ (dopo una ‘briciola’ di tempo). Comune nell’uso popolare toscano l’espressione ‘fare a bricino’ (consumare, mangiare a poco a poco); qui è interessante l’uso della parola al di fuori della frase fatta.
[253] Ms.: punto e virgola dopo tempo.
[254] Verso ipermetro.
[255] Incrocio di costruzioni attiva e passiva.
[256] Voce del registro popolare toscano: ‘prendere, cogliere’.
[257] Conflazione delle costruzioni personale e impersonale.
[258] Probabilmente per ‘scaltri’ (la parola scaltro è usata a II 127.8). Scalti potrebbe anche essere un ipercorrettismo per scarti, ma ipercorrettismi di questo genere sono generalmente assenti nel testo. La rima rimane comunque imperfetta.
[259] Il comitato di gestione della ghenga.
[260] Sottinteso un sostantivo come ‘fatti, aneddoti’.
[261] Cfr. nota a I 38.2.
[262] Desinenza inconsueta, per esigenze di rima (cfr. il v. 2 dell’ottava succssiva, II 36.1, II 45.1), anche se metaplasmi di questo genere non sono sconosciuti al lucchese.
[263] Cfr. l’inglese caboose: il vagone di coda riservato al conduttore nei treni merci americani.
[264] Cfr. nota a II 37.1.
[265] Per la desinenza –n al posto della –m, qui come in insien di 75.6, v. nota a II 22.8.
[266] Cfr. Guerrino in ottave: “Che doveva partire in quesll’istante” (p. 4).
[267] Antica forma plurale, residuo del neutro latino. Nel testo la forma si alterna con quella regolare carri.
[268] Forma popolare del congiuntivo presente.
[269] Verso ipometro, a meno che non si trasformi mentalmente il volck tren nel corrispondente inglese working-train.
[270] ‘Piaciuta’.
[271] ‘A quanto ammontava la paga maggiorata’.
[272] Fiorentinismo. Cfr. anche l’era del v. 79.8.
[273] Eufemismo per ‘giuraddio’ (giuro a Dio), sentito come una bestemmia.
[274] L’integrazione degli emigranti italiani nei sindacati americani fu molto lenta. Ma una Brotherhood of Maintenance of Way Employees (con sede centrale a Detroit, Mich.), affiliata all’ American Federation of Labor, era stata fondata nel 1891, e il gesto della ghenga risente certo di una rudimentale cultura sindacale, anche se questo è l’unico accenno che si trova nel testo, e se la cultura dell’Andreoni appare poco permeabile alla propaganda socialista. Cfr. R. J. Vecoli, The Italian Immigrants in the United States Labor Movement from 1880 to 1929 in AA.VV., Gli Italiani fuori d’Italia, a cura di Bruno Bezza, Milano: Franco Angeli Editore, 1983, pp. 257-306.
[275] Il secondo emistichio del v. 7 e l’ultimo verso dell’ottava riscritti sopra un testo cancellato.
[276] Formula ricorrente: v. I 21.7, III 46.1.
[277] Ms.: dalle. Ma a III 8.6 la parola bile è preceduta correttamente dall’articolo una.
[278] La scomparsa della c intervocalica è tipica del vernacolo lucchese.
[279] Uno dei rari versi ipermetri.
[280] Da un verbo ingollire, registrato dal Malagoli per il pisano.
[281] Ms.: accanto a dego c’è un segno di richiamo ma la nota non compare da nessuna parte. Dego era un termine peggiorativo usato negli Stati Uniti per indicare dapprima gli emigranti ispanofoni (la parola risalirebbe al nome proprio Diego), poi anche gli italiani.
[282] ‘Straniero’.
[283] L’espressioni di sesso gentile nasconde probabilmente un epiteto osceno e ingiurioso.
[284] Il famoso verso dantesco “Noi ci allegrammo, e tosto tornò in pianto” (Inf. XXVI 136) ha dato luogo a una larga proliferazione di nozioni ed espressioni simili, tanto nella letteratura colta che nella scrittura popolare. Cfr. per esempio Paris e Vienna, III 20.8, III 46.7-8, III 68.4, III 83.5, IV 33.8, VIII 13.8, e Luigi Nardi: “e convertendo il dolore in allegria, insieme ai compagni giunsi alla stazione” (Sussidiario di un maestro contadino, a cura di Dante Priore, Terranuova Bracciolini: Biblioteca Comunale, 1989, “Quaderni della Biblioteca” n. 21, p. 33).
[285] Ms.: oh! che rancore.
[286] Nonostante fosse stata fondata appena una quindicina di anni prima, Miles City era un importante centro di raccolta e mercato del bestiame, con alberghi e, come si ricava anche dal testo, un ufficio postale e una banca. Alcune pagine sulla vita della ‘buona società’ di Miles City in Donna M. Lucey, Photographing Montana 1894-1928: The Life and Work of Evelyn Cameron, New York: Alfred Kopf, 1991.
[287] La desinenza –a di vaglia è stata trasportata all’alterato diminutivo. L’Andreoni si serve evidentemente della posta per spedire le sue rimesse in Italia. Da un suo taccuino si rileva che l’Andreoni spedì in Italia, nel corso del 1901, Lit. 550, e che nel 1902 le rimesse raggiunsero la cifra di Lit. 1.777. Molti emigranti italiani affidavano invece i loro risparmi a un compaesano banchista, incorrendo spesso in esose commissioni. Nel 1901 il governo italiano affidò al Banco di Napoli l’esclusiva della raccolta e trasmissione del risparmio italiano all’estero, nel tentativo di tutelarlo e sottrarlo ai temibili banchisti e alle banche estere, ma in realtà meno di un decimo delle rimesse totali fra il 1901 e il 1913 passarono per il canale del Banco di Napoli. Cfr. E. Sori, L’emigrazione italiana dall’Unità alla seconda guerra mondiale, p. 124. Secondo il Sori un anno di lavoro negli Stati Uniti, agli inizi del Novecento, fruttava in media 1000-1500 lire (p. 159).
[288] Italianizzazione dell’inglese check. Il vocabolo era comune nel gergo degli italoamericani.
[289] Probabilmente il treno che aveva condotto i manovali restò ad aspettare quelli che si trattennero in città a divertirsi, e quelli che vollero tornar prima dovettero andare a piedi. Come i film western ci hanno insegnato, il giorno di paga (pay day) era tradizionalmente giorno di baldoria.
[290] Indicativo al posto del congiuntivo.
[291] ‘Quanto a uno che… è allevato, sta’.
[292] Per ‘ci’. Il si è comune nell’italiano popolare per il dativo del pronome atono di prima persona plurale. Opto per questa interpretazione piuttosto che per un sì rafforzativo in considerazione del nominativo assoluto noi tutti del verso precedente, e della presenza di un secondo si nello stesso verso (ms.: si trista).
[293] Cfr. nota a II 24.5.
[294] Italianizzazione dell’inglese wreck: il treno era deragliato.
[295] Cfr. Paris e Vienna: “e di guardarla non si può saziare” (II 16.3). Costruzione: La vista non si sazia di rimirare il fatto…
[296] L’apparire del nuovo giorno è uno dei topoi più comuni nella poesia italiana, e frequente in particolare nella Gerusalemme Liberata: “Come appaia diman l’alba novella” (I 65.5), “Ma come apparse in ciel l’alba novella” (II 8.1), “quando su l’apparir de’ primi albori…”(IV 75.5). La formula qui usata torna con varianti minime all’inizio della strofa successiva e all’inizio dell’ottava 113.
[297] L’anacoluto andrà spiegato con una correlazione del tipo “l’alba era appena ritornata che…”.
[298] Cfr. nota a II 66.1.
[299] Ms.: in’ostaggio: ‘come testimonianza’?
[300] La prosodia richiede la pronuncia catastròfe.
[301] Nel suo romanzo autobiografico La scoperta dell’america, Carmine Biagio Iannace descrive dal punto di vista di un operaio come veniva eseguita l’operazione: “Il gruppo a cui io appartenevo aveva una sola funzione principale ed era quella di rimettere in binario locomotive deragliate. Era un lavoro molto pericoloso. Si sollevava un pochino la locomotiva dal lato dove si voleva che andasse, su chicchi [probabilmente per ‘cricchi, martinetti’] ad aria compressa, poi si sollevava con altri chicchi dall’altro lato fino a quando scivolando si trovava correttamente sui binari. Il pericolo era che con leve e pali si doveva attutire la caduta cosicché il peso della locomotiva venisse a restare tutto sui chicchi più bassi che non reggendo al peso scoppiavano come una bomba.” (p. 54)
[302] ‘Trincera’ (cfr. II 28.7). In questo caso doveva trattarsi di un taglio effettuato a metà costa. Il tratto della ferrovia di cui qui si parla passa in fondo alla valle del fiume Yellowstone, dalle pareti ripide e composte di rocce estremamente friabili. Frane e smottamenti furono perciò una delle difficoltà incontrate durante la costruzione della ferrovia e, evidentemente, persisterono a lungo. Cfr. Eugene V. Smalley, History of the Northern Pacific Railroad. New York: Putnam and Sons, 1883, p. 399.
[303] Ms.: e scritto a correzione di un che.
[304] ‘La parte anteriore’.
[305] Si riferisce forse a movimenti laterali del collo e della testa del dromedario.
[306] Rima imperfetta.
[307] Ms.: al fin.
[308] Probabilmente per ‘incarico’, con la scomparsa della c intervocalica tipica del vernacolo lucchese.
[309] ‘Canzonature’, con troncamento anomalo della vocale finale dopo r.
[310] Ms.: perchi … trà.
[311] Ms.: la parola componea è scritta sopra una cancellatura.
[312] Per scommessa.
[313] Ms.: lui scritto sopra una cancellatura.
[314] Ms.: comincia scritto sopra una cancellatura. Scomparsa della preposizione a in corrispondenza della desinenza omofona di comincia; ma cfr., nella stessa ottava, v. 8: comincia a tirare.
[315] ‘Coperta imbottita’. Cfr. G. Giannini – I. Nieri, Lucchesismi, p. 74.
[316] ‘Baldoria’, con rotacismo della l in sillaba complicata, tipico del vernacolo pisano-lucchese.
[317] Ms.: fin qui il verso è riscritto sopra una cancellatura.
[318] Forse da integrare mentalmente una reggente del tipo ‘potete immaginare con quanta concordia…’. Cfr. Orlando Furioso: “Dunque ne la concordia ch’io vi dico / Tenean lor via per mezo il bosco antico” (XXI 71.7-8). Soggetti erano Zerbino e Gabrina.
[319] Fiorentinismo.
[320] ‘Scommetteva’.
[321] Spegnare è metaplasmo ancora vivo nel vernacolo lucchese all’inizio del secolo (C. Salvioni, Appunti sull’antico e moderno lucchese, pp. 471). Imperfetto per il condizionale passato, comune nell’uso popolare.
[322] ‘Assemblea’, con rotacismo tipico del vernacolo lucchese.
[323] Il termine raro ano e l’articolo che lo precede sono stati recepiti come una sola parola.
[324] ‘Cassa’. Probabilmente falsa ricostruzione dalla forma accrescitiva cascione, che era comune nel lucchese.
[325] Ms.: punto e virgola dopo carton.
[326] Participio passato contratto, tipico del vernacolo lucchese.
[327] Ms.: punto e virgola dopo ebbe.
[328] Forse da Ponsampieri (Ponte San Pietro), alle porte di Lucca. Ma i paesi che cominciano con Ponte in provincia di Lucca sono numerosi (a Cappiano, a Monsanquilico, a Nievole, a Serchio, a Serraglio, di Strada, Pontetetto…). Gli abitanti di Ponte a Moriano sono chiamati dal Repetti ‘pontonari’.
[329] Cfr. nota a II 32.6. La lenizione di bicongio in bigongio è registrata come lucchese in G. Giannini – I. Nieri, Lucchesismi, p. 19.
[330] Costruzione paraipotattica.
[331] La voce primitiva balogio significa propriamente ‘fiacco’ ma qui, in senso figurato: ‘stupidone’.
[332] Forma italianizzata dell’inglese box.
[333] Forma toscana della negazione non.
[334] Variante di macina, forma italianizzata dell’inglese machine, recepita attraverso trasmissione orale.
[335] V. nota a II 77.3, con scempiamento della r, tipico del vernacolo lucchese.
[336] Ms.: ne scritto nell’interlinea.
[337] Ms.: ad’onta / di un’uomo. Il senso sarà ‘nonostante lui non lo volesse dire’.
[338] V. nota a II 86.7.
[339] Ms.: su luogo.
[340] Bisillabo.
[341] Per la misura del verso si dovrà considerare aveano trisillabo.
[342] Ms.: un’ammasso.
[343] ‘Sgraffignava, rubava’.
[344] Ms.: La parola covo riscritta sopra conto.
[345] Per il termine rollette non sono riuscita a trovare una spiegazione precisa. La parola deriverà comunque dall’inglese roll e sarà da collegare a un significato di base di ‘picolo oggetto cilindrico o sferico’.
[346] Chiappare è voce popolare per prendere. Flanella: ‘camiciola di lana’. L’anafora “distributiva” è stilema comune anche nelle scritture di carattere popolare. Un passo dell’Orlando Furioso sembra però particolarmente vicino per il contenuto, oltre che per la forma: “I vincitor uscir de le funeste / Porte vedeansi di gran preda onusti, / Chi con bei vasi, e chi con ricche veste, / Chi con rapiti argenti a Dei vetusti: / Chi traea i figli, e chi le madri meste…” (XL 34.1-5).
[347] Conflazione delle costruzioni simile a e come + sostantivo.
[348] Ms.: don’abbondio. Cfr. Promessi Sposi, cap. XXX. Don Abbondio usa il termine luterani e non ugonotti.
[349] La figura dell’enumerazione è comune nel genere epico-cavalleresco.
[350] La compartecipazione ad un’azione collettiva sembra attenuare la connotazione negativa di un gesto che è comunque identificato col verbo ‘rubare’.
[351] Ua di quelle ‘parole chiave’ che ricorrono nelle scritture popolari “con una frequenza certo maggiore della media d’impiego nella lingua comune” e che “vanno considerate più come simboli di una situazione e di un atteggiamento psicologico, che nel loro aspetto denotativo” (M. Cortelazzo, Lineamenti di italiano popolare, p. 55). Cfr. anche il capitolo intitolato da Pierre Scavée e Pietro Intravaia “Le complexe de Saint-François”: “L’usage linguistique italien reflète une très grande aptitude à vibrer à l’unisson de la mièere humaine…” (Traité de stylistique comparée, Bruxelles: Didier, 1979, p. 107).
[352] Cfr. Paris e Vienna: “Lettor, non ti potrei in mille carte / Narrare la gran forza del campione (I 91.1-2), “Non si potrebbe mai tanta allegrezza / In mille carte finir di narrare” (II 12.1-2), “S’io volessi contar le belle prove, / Lettor, non servirebber mille carte” (II 60.1-2).
[353] Impiattare (rimpiattare) è voce popolare per ‘nascondere’.
[354] Ms.: un’altro.
[355] Perfetto forte (prima plurale) del verbo avere, vivo allora nel vernacolo lucchese (cfr. I. Nieri, Vocabolario lucchese, p. 21), fatto precedere da un’acca per buona misura.
[356] Ms.: i lorenzini.
[357] La somma indicata sarà non il supplemento, ma la paga della giornata festiva, un po’ più alta di quella dei giorni feriali. L’analisi delle paghe dei manovali immigrati pubblicata da Frank Sheridan nel 1907 rivela che per i lavori lungo la ferrovia, negli stati americani del nord, la paga media si collocava fra $1.39 e $1.42. Il lavoro di scavare trincee, che sembra il lavoro regolare di questa ‘ghenga’, era dunque uno dei meno remunerati. Cfr. F. Sheridan, Italian, Slavic and Hungarian Unskilled Immigrant Laborers in the Unites States, “Bulletin of the Bureau of Labor”, 72 (Settembre 1907), p. 434.
[358] ‘Ciononostante’.
[359] Ms.: forna. L’autore aveva scritto dapprima torna (parola rima del verso 3), poi ha corretto la t in f lasciando invariato il resto.
[360] Rima imperfetta.
[361] Ms.: segiuva.
[362] ‘Seduto’?
[363] Ms.: spengnesse.
[364] Uso incongruo del congiuntivo, probabilmente per esigenze di rima, ma forse facilitato dalla costruzione superlativa (‘il più bel libro che abbia mai letto’).
[365] Ms.: con’essa.
[366] Cfr. nota a II 47.2.
[367] Ms.: punto e virgola dopo bosco; punto fermo dopo stato, seguito da E maiuscola.
[368] Per la rima cfr. Orlando Furioso: “ad ogni sterpo che passando tocca / Esser si crede all’empia fera in bocca.”
[369] V. nota a II 77.3.
[370] Ms.: a’lavorare.
[371] Imitazione non riuscita del fiorentino.
[372] Costruzione con dislocazione a sinistra e ripresa pronominale.
[373] Ms.: la e finale di venire semicancellata.
[374] Fiorentinismo.
[375] Il pronome femminile la è usato in senso generico, come in “ce la metto tutta”. È significativo che l’alterco poggi sull’ignoranza o meno degli operai. Quasi tutti gli scritti che denunciano il padrone system ne rintracciano infatti la causa nelle deficienze culturali degli immigrati: la forza dei ‘padroni’ italiani consisteva proprio nell’’ignoranza’ degli immigrati, che spesso non si limitava alla lingua e alle istituzioni del paese ma era vero e proprio analfabetismo.
[376] Cfr. Gerusalemme Liberata: “Su l’entrare d’un uscio i passi erranti / a caso mette…” (VII 45.5). Il senso dell’espressione in questo contesto resta però incerto.
[377] V. nota a II 24.5.
[378] Ms.: su luogo.
[379] Il Pieri (p. 109) segnala i metaplasmi stevo e andevo spiegandoli come alterazione analogica su devo. Si potrebbe pensare piuttosto a avevo.
[380] Ms.: gallen’angelo. Da pronunciare Angèlo.
[381] ‘Gli assegni’ (della paga). Nota dell’autore: “Sono specie di cambiale che dà per paga la compagnia”. La spiegazione rivela che gli assegni non erano comuni fra le persone del suo ceto (ma lo erano le cambiali).
[382] Gerundio coordinato all’indicativo: costruzione identificata da Franca Ageno in testi italiani antichi (Gerundio coordinato con indicativo precedente, “Lingua nostra” XXVII [1966], pp. 114-117). L’uso del gerundio in questa costruzione sembra corrispondere a quello che la Grande grammatica italiana di consultazione definisce “gerundio ‘coordinato’ con valore di ‘aggiunta’ narrativa o valutativa” (L. Renzi e G. Salvi, Grande grammatica italiana di consultazione, vol. II, Bologna: Il Mulino, 1991, pp. 588 sgg.).
[383] La desinenza –ieri è comune nei vernacoli pisano e lucchese (cfr. i nomi propri Ranieri, Gualtieri, e, nel nostro poema, panattieri).
[384] Cfr. Pia de’ Tolomei: “La sera quando si perdeva il giorno” (p. 7).
[385] Ms.: và.
[386] Similitudine in piena regola. Cfr. Gerusalemma Liberata: “Qual dopo lunga e faticosa caccia / tornansi mesti ed anelanti i cani, / che la fera perduta abbian di traccia, / nascosa in selva da gli aperti piani; / tal pieni d’ira e di vergogna in faccia / riedono stanchi i cavalier cristiani.” (VII 2. 1-6)
[387] ‘Eravamo’: nel vernacolo lucchese è la forma regolare (cfr. I. Nieri, Prefazione al Vocabolario lucchese, p. xvii). Ma la forma si trova anche fuori di Toscana: cfr. Antonio Margariti: “non abbiamo convi[n]ta la polizia che noi eramo a milano per divertirsi” (America! America!, Salerno: Galzerano, 1979, p. 116), e Orlando Furioso V 59.1, XIII 15.1).
[388] Ms.: d’cqua.
[389] Piuttosto che allusione ai cavalieri erranti, si dovrà vedere nel termine il significato autocommiserativo di ‘raminghi, vagabondi che errano da un luogo all’altro’. Ma si noti che erranti è parola eminentemente tassesca: “e sotto i santi / segni ridusse i suoi compagni erranti” (I 1.8), “e guidi in porto / me peregrino errante” (I 4.3), “vola ove fra le squadre erranti, / fattosen duce, Soliman dimora” (IX 3.1-2), ecc.
[390] Il verbo è usato impropriamente alla forma riflessiva.
[391] Troncamento di portonno, terza plurale del passato remoto. Forma e troncamento sono regolari nel vernacolo lucchese. Shirley: stazione ferroviaria fra Miles City e Terry, Montana.
[392] Nota dell’autore: “Passo è un biglietto per viaggiare in treno sensa pagare.” Come impiegati della Northern Pacific, i manovali potevano chiedere il permesso di viaggiare in treno gratuitamente (cfr. III 64), ma la concessione era soggetta a condizioni.
[393] Conflazione fra discorso indiretto e discorso diretto. Cfr. I. Nieri, Postfazione a Vocabolario lucchese, p. 280.
[394] ‘Porzioncelle’.
[395] Naturalmente un soprannome, come il Tirapiani dell’ottava 124.8. Cfr. nota a II 32.7.
[396] Ms.: prima di rassembra un si semicancellato.
[397] Non so da dove provenga questa beffarda denominazione, se non da uno di quei “blasoni” popolari con cui la gente dei paesi soleva beffare quelli dei paesi vicini (Cfr. I. Nieri, Scritti linguistici e http://www.treccani.it/vocabolario/blasone/, acc. 3), o da qualche romanzo. Un analogo giudizio di bizzarria a proposito della popolazione di un un quartiere livornese si trova nei Misteri di Livorno di Cesare Monteverde (Volterra: Sborgi, 1853), uno dei tanti romanzi sorti sulla scia dei Mystères de Paris di Eugene Sue: “popolazione la quale come vediamo pel suo continuo contatto con la gente di mare si è improntata ad un carattere tutto speciale e bizzarro, popolazione infine ignorantissima, di cuor fiero, di volontà decisa, di un coraggio e di un’audacia senza pari, facile per altro alla credulità ed a credere a qualsivoglia cosa che abbia dello straordinario e del portentoso.” (citato da E. Ghidetti, Un aspetto della letteratura popolare in Toscana, in Editori a Firenze nel secondo Ottocento, a c. di I. Porciani, Firenze: Olschki, 1983, pp. 353-54).
[398] Ms.: far’il. La misura del verso si ristabilisce con il troncamento dell’infinito e conseguente sineresi.
[399] Nel vecchio ordinamento liturgico, il primo periodo di preghiera che si faceva prima dell’alba. Qui significa che non gli piaceva più alzarsi in piena notte, come deve fare un panettiere che deve far trovare il pane pronto fin dalla mattina.
[400] Cfr. nota a II 26.5.
[401] Forse bisogna integrare mentalmente un “meno” davanti a scaltro.
[402] Qui nel senso che l’organizzazione del gruppo funzionava bene.
[403] Il senso di questa espressione sarà che l’autore sta accorciando il resoconto degli avvenimenti per arrivare più rapidamente a completare il canto dedicato alla ‘campagna’. Il Nieri riporta un proverbio simile ma inverso: “Bisogna lasciar passare tre pan per una coppia”, sotto l’intitolatura “Prudenza” (I. Nieri, Proverbi toscani specialmente lucchesi, a c. di Guglielmo Lera, Lucca: Azienda Grafica Lucchese, 1965, p. 68 [pubblicato originariamente nel vol. XXVII degli “Atti dell’Accademia Lucchese”]).
[404] Ms.: qualche mese riscritto sopra una cancellatura. Cancellature si intravedono anche nel verso seguente (originariamente e Tu donami soccorso)
[405] Nella chiesa parrocchiale di Colognora erano custoditi e venerati un quadro della Madonna del Buon Consiglio e una statuetta della Madonna dei Sette Dolori.
[406] Participio passato contratto tipico del vernacolo lucchese.
[407] Costruzione anacolutica con un congiunzione che di troppo.
[408] ‘Faccia’: forma regolare del congiuntivo presente nel vernacolo lucchese.
[409] Cfr. Paris e Vienna: “Poi prende il calamaro, il foglio, e in quello / Gli scrive tutto l’aspro suo dolore” (VI 5.1-2); “E piglia il calamar, la carta e poi / Piangendo egli rispose tosto a quella, / Dicendo: “Fratel mio, non più fra noi / Si scriva, né si sappia più novella!” (VI 85.1-4). A sua volta il Paris e Vienna utilizza il linguaggio della tradizione cavalleresca: per questo passo si veda, per esempio, il Rinaldo di Torquato Tasso: “onde novella / di me mai più non s’oda, o buona o fella” (I 16.7-8).
[410] ‘Esplorare i dintorni’.
[411] Il 29 settembre, festa dei santi Michele, Gabriele e Raffaele arcangeli, era festa nella parrocchia di Colognora la cui chiesa era dedicata all’arcangelo Michele.
[412] Ms.: e’alla. Alla scoperta… potrebbe essere collegato a giratina, ma la congiunzione e rende la frase anacolutica. Benché il termine mina appartenga anche al patrimonio linguistico italiano, è forse da tenere presente il termine inglese mine. Come l’Andreoni, il Lugnani nelle sue memorie adopera mina (p. 171 e passim) in alternanza con miniera (p. 172 e passim). Cfr. anche i versi della canzone La Zolfara (“Dischi del Sole”): “e i compagni che dapprima / lavorando nella mina / sono morti in questi anni”.
[413] Si tratta evidentemente di una miniera abbandonata. Il Montana è in effetti molto ricco di risorse minerarie, tra cui l’oro e l’argento che compaiono nel motto dello stato: “Oro y plata” (gli Spagnoli dominarono la Louisiana dal 1763 al 1800 e Montana è una deformazione dello spagnolo montaña). La colonizzazione della regione ricevé impulso dalla corsa all’oro degli anni ’60 dell’’800, in seguito alla scoperta di favolosi giacimenti d’oro a Bannack, Virginia City e Last Chance Gulch, nel Montana occidentale.
[414] Cfr. Paris e Vienna: “E tanto sottoterra fé scavare / Che rassembrava ad una sepoltura.” (VI 59.3-4)
[415] Si sovrappongono qui le reminiscenze dell’assalto di Rodomonte a Parigi (Orlando Furioso, XVI, XVII, XVIII) e della difesa di Gerusalemme da parte di Argante e Solimano; quest’ultimo riferimento sembra però il più preciso: “e da lor tanti fûro uomini uccisi, / e scudi ed elmi dissipati e sparsi, / e scale tronche ed arïeti incisi, / che di loro parve quasi un monte farsi, / e mescolati a le ruine alzaro, / invece del caduto, alto riparo.” (Gerusalemme Liberata, XI 64.3-8) Se il primo verso dell’ottava successiva s’interpreta come la continuazione del discorso si ha qui uno dei rari casi in cui il discorso continua da un’ottava all’altra (cfr. III 44-45).
[416] ‘Piccone’.
[417] ‘Non passò neanche il tempo di un baleno’
[418] Verso ipermetro.
[419] Cfr. Paris e Vienna: “Ma ciò non piacque alla Bontà infinita, / Che quest’anima mia uscisse fuore” (IV 9.5-6).
[420] Anche l’uso pregnante e intransitivo di cessare è tassesco. Cfr. Gerusalemme Liberata I 7.2-3, I 12.2, XI 63.3, ecc.
[421] Tentativo poco riuscito di fare un po’ di spirito. Per una movenza simile in fine d’ottava cfr. Ricciardetto: “e per andarvi sopra con un salto / s’accorser che quel muro era tropp’alto.” (III 47.7-8)
[422] La dittologia lieto e contento è una delle più comuni nel Paris e Vienna (IV 77.7, V 9.8, VI 79.1, VIII 10.5; lieta e contenta a III 7.3).
[423] Ms.: punto e virgola dopo compagni.
[424] Accordo con l’oggetto indiretto.
[425] ‘Dinamite’. Metaplasmo di declinazione e passaggio di i protonica a e, analogamente agli esiti fenire, fegura, menuto, prencipio. Cfr. Salvioni, Appunti sull’antico e moderno lucchese, “Archivio Glottologico Italiano” XVI (1905), pp. 415 sgg. e Pieri, Fonetica del dialetto lucchese, “Archivio Glottologico Italiano” XII (1890-92), pp. 114 e 161.
[426] Ms.: Shirley scritto sopra una cancellatura.
[427] Perché i capricorni debbano esser paragone di giravolte faticose e inutili non è chiaro. Forse allusione alla coda attorcigliata?
[428] Cfr. Storia di Raffaello Maestripieri: “sentite cosa fece quel birbone?” (p. 16).
[429] L’uso di si per ci pronome personale atono è comune nell’italiano popolare.
[430] ‘Siamo diventati peggio degli zìngari’. L’accento di zingari è stranamente spostato sulla penultima sillaba, e il fenomeno si ripete negli zingheri dell’ottava seguente. Poiché in Lucchesia gli zingari sono chiamati ‘strolai’, o ‘strolaghi’ (da ‘astrologo’), si può pensare che l’Andreoni abbia appreso la parola attraverso la lettura, senza averla sentita pronunciare.
[431] L’incertezza nell’uso degli articoli (dei zingari, li zingheri) potrebbe essere un ulteriore segno dell’estraneità della parola al linguaggio corrente dell’Andreoni.
[432] Terry, cittadina fra Glendive e Miles City. La pronuncia lucchese con scempiamento della r geminata ristabilisce la rima perfetta. La cittadina di Terry deve probabilmente il suo nome al generale Alfred H. Terry che fu a capo del Dipartimento del Dakota (comprendente allora anche il Minnesota settentrionale e il Montana orientale) dal 1873 e contribuì a liberare la valle del fiume Yellowstone dalla minaccia degli Indiani.
[433] Ms.: stà.
[434] Cfr. l’analogo stato d’animo di Paris quando riceve una lettera di Vienna (Paris e Vienna, VI 29-30).
[435] Metatesi popolare per ‘dentro’.
[436] Inversione dell’espressione retorica che trova il suo archetipo nel dantesco “Noi ci allegrammo e tosto tornò in pianto” (Inf. XXVI, 136). V. nota a II 83.1-2.
[437] “In buona salute”: accezione normale nel vernacolo lucchese.
[438] Ms.: hoh! L’uso dell’aggettivo “difficile” inesorabile appare qui fuori proposito.
[439] “Nel superlativo relativo il più preposto al sostantivo, anziché all’aggetivo” è registrato come lucchesismo in G. Giannini e I. Nieri, Lucchesismi, p. 93. L’anafora è artificio comune nel genere epico cavalleresco. In particolare per l’anafora con ecco cfr. Gerusalemme Liberata III 3.5-8 e Paris e Vienna II 63.3-8.
[440] Ms.: morte.
[441] Uno dei numerosi esempi di dislocazione a sinistra con ripresa pronominale. Cfr. Manlio Cortelazzo, Lineamenti di italiano popolare, secondo volume dell’Avviamento critico allo studio dela dialettologia italiana, Pisa: Pacini, 1972.
[442] Ms.: questi del riscritto su un pezzo di cancellato.
[443] Ms.: schiacciava scritto nell’interlinea inferiore a correzione della stessa parola, cassata con un tratto di penna, la sillaba iniziale scritta male sopra una cancellatura.
[444] Ms.: persone scritto sopra una cancellatura. Francesismo? Costruzione a senso.
[445] Ms.: cadea e il piede là mettea sono correzioni nell’interlinea. Una prima versione aveva venia e dal bordo sortia. Piero Perini è il piemontese che aveva condotto i compagni a tentare la fortuna in una miniera abbandonata (II 133), Ghimenti è il compagno che aveva zittito il soprintendente Lorenzini nel corso di un diverbio (II 116).
[446] Cfr. Paris e Vienna: “Pietoso il Cielo contentar lo volse” (I 8.1).
[447] ‘Ciononostante’.
[448] La defezione del Lorenzini sembra confermare che nelle accuse ventilate contro di lui (cfr. II 57 e nota relativa) doveva esserci del vero.
[449] Ms.: quelche.
[450] Omissione della preposizione di. La grafia anziosa tradisce la pronuncia affricata della s sorda dopo n, comune in tutta l’Italia centromeridionale.
[451] Nella genesi dell’inusitata espressione ci sarà la suggestione della locuzione ‘battere la strada’ e, forse, di un’espressione simile del Paris e Vienna: (“Or quà[sic], or là, va dibattendo il piede”, I 47.3), che però ha un significato diverso come si comprende dal verso immediatamente successivo: “E mostra di vendetta aperto il segno.”
[452] Ms.: a luogo.
[453] Sarà per ‘pallone aerostatico, mongolfiera’.
[454] L’espressione ‘trovar poso’ (restare fermi, tranquilli) è comune nei vernacoli lucchese e pisano. Cfr. G. Malagoli, Vocabolario pisano. Firenze: Accademia della Crusca, 1939; I. Nieri, Saggi scelti del parlar popolare lucchese, “Atti della Reale Accademia di Scienze Lettere e Arti di Lucca”, 1896. Il lemma ‘poso’ da solo è avvertito dal Petrocchi come “non comune, poetico”.
[455] Sineresi nella desinenza –ìa.
[456] Ms.: sono, con la desinenza –o che sembra essere stata aggiunta in un secondo momento (troppo vicina alla parola seguente e bassa rispetto alla n).
[457] Gli Stati Uniti furono tristemente famosi negli anni a cavallo sei due secoli per il numero di infortuni sul lavoro, particolarmente lungo le ferrovie, per la deficienza delle misure di sicurezza (un’inferiorità, rispetto ai paesi europei, rivelata da un congresso internazionale sugli infortuni e ammessa da Theodore Roosevelt nel corso di messaggi al Congresso nel 1907 e nel 1908) e per l’estrema difficoltà a ottenere risarcimenti. “Fu detto da uno scrittore americano che negli Stati Uniti corre più rischio di morir di morte violenta un impiegato ferroviario, che un’assassino [sic]. La ragione principale di questo stato di cose è che i metodi di sicurezza costano assai cari, mentre la vita umana, data l’assenza della legislazione sociale, ed il continuo influsso di nuovi immigrati, costa pochissimo” (G. Preziosi, Gl’Italiani negli Stati Uniti, pp. 53-54). Il Villari si diffondeva poi a spiegare le ragioni e i metodi con cui le compagnie riuscivano ad evitare il risarcimento degl’infortunati o degli eredi superstiti anche quando la loro responsabilità fosse accertata: colpa parziale degli infortunati, mobilità degli eventuali testimoni, collusioni con i poteri politici e giudiziari, diffusi pregiudizi antiitaliani. Sintomatico dell’atteggiamento americano nei confronti degl’infortuni degli emigranti è la seguente risposta data dal capo dei giurati in una causa per infortunio ad un notabile italiano di Pittsburg: “Credete voi che noi condanneremmo delle grandi imprese americane che danno lavoro e pane a migliaia di operai in America a sborsare forti indennità a favore di famiglie che vivono in Italia? Neanche per sogno” (Luigi Villari, Gli Stati Uniti d’America e l’emigrazione italiana, pp. 271-75). Cfr. anche A. A. Bernardy, Italia randagia attraverso gli Stati Uniti, pp. 161-189.
[458] Ms.: hai casi brutti.
[459] Ms.: l’autore aveva scritto dapprima quello, poi ha cancellato la sillaba finale –lo.
[460] La frase rimane sospesa.
[461] Ms.: a luogo.
[462] Ms.: trà.
[463] Costruzione anacolutica.
[464] Ms.: un’fosso.
[465] Paraipotassi.
[466] Verbo obbligare usato con la preposizione di.
[467] Ms.: dicciati.
[468] Particella pronominale si usata al posto di ci, come spesso nell’italiano popolare.
[469] La misura del verso si ristabilisce col troncamento dell’infinito, tipica del vernacolo lucchese (anda’).
[470] Forma popolare toscana per ‘può’, usata frequentemente anche nel Paris e Vienna.
[471] Per l’ultima espressione cfr. Paris e Vienna: “Venuta l’ora, il Giovinetto pone / Quei Mammalucchi a bevere e a mangiare” (VII 82.6); e la formula ricorre anche nei Canti popolari della montagna lucchese raccolti e annotati da G. Giannini, pp. 170 e 228. I lavoratori erano pagati all’ora: restare qualche giorno senza lavorare, “a bevere e a mangiare,” era quindi pura perdita.
[472] Vorrà dire ‘seguendo un ordine di priorità’, magari un ordine alfabetico?
[473] Il lavoro di questi manovali era infatti stagionale: avvicinandosi l’inverno la maggior parte di loro tornavano a Chicago, e spesso restavano disoccupati fino alla buona stagione successiva. I mesi di inattività contribuivano così ad abbassare il livello del reddito annuale. Cfr. R. J. Vecoli, Contadini in Chicago: A Critique of The Uprooted, “Journal of American History” LI, 3 (1964), p. 411.
[474] Cfr. Curioso contrasto nato in campagna tra la morte e un semplicista: “Ovunque io vada, vo’ pe’ fatti miei / Dove a me più piace, e più m’aggrada” (p. 2). Naturalmente qui l’uso impersonale del verbo ‘desiare’ rende la frase incongrua.
[475] Il verbo impiattare (meno comune di rimpiattare, ‘nascondere’) è usato con un si passivante.
[476] In stampatello nel manoscritto.
[477] Ms.: intorno al titolo, ripetuto tre volte, il timbro col nome Andreoni Antonio.
[478] Ms.: vò.
[479] Cfr. Gerusalemme Liberata: “O Musa, tu che di caduchi allori / non circondi la fronte in Elicona, / ma su nel cielo in fra i beati cori / hai di stelle immortali aurea corona, / tu spira al petto mio celesti ardori, / tu rischiara il mio canto, e tu perdona / s’intesso fregi al ver, s’adorno in parte / d’altri diletti, che de’ tuoi, le carte.” (I 2) Nella ripresa da parte del cantore popolare si osserva l’incomprensione dell’aggettivo difficile caduchi: la frase è infatti volta alla costruzione positiva, con corrispondente perdita della contrapposizione “ma su nel cielo…” e la sostituzione del più neutro felici a celesti. Si noti anche la matrice visiva delle preposizioni staccate in fra, a testimonianza che la trasmissione delle formule letterarie è avvenuta tramite lettura e non ascolto. Analoga invocazione, con la stessa rima Elicona : corona, all’inizio del Paris e Vienna: “Muse superne, voi che al chiaro fonte / Gustate le dolci acque d’Elicona / E risiedete sul Parnaso monte / Ove riceve ognun premio e corona, / Porgete aiuto alle mie voglie pronte, / Mentre di voi quaggiù fama risuona…” (I 2.1-6).
[480] Ms.: Eterno, con l’iniziale maiuscola.
[481] Verso ipermetro.
[482] Verso ipermetro.
[483] Paraipotassi.
[484] ‘Fricassea, stufato’. Dal francese fricot, ‘viande en ragout’, che il Robert definisce voce popolare e spiega come derivata da fricasser.
[485] Dire al dente vorrà dire qualcosa come ‘stuzzicare l’appetito, piacere’, dal significato più generale della locuzione dire a, ‘andar bene insieme’ (registrato dal GDLI, accezione n. 29).
[486] Il sintagma il gran tentennare… assume il valore di complemento della proposizione principale, con una sorta di dislocazione a sinistra senza ripresa pronominale. Virgole intorno al sintagma nel manoscritto.
[487] Si tratta, evidentemente, di un bosso diverso dal Lorenzini. L’organizzazione della ‘ghenga’ appare anche diversa: non si parla più di bordo e l’autore prepara lui stesso i suoi pasti. Per l’atteggiamento di maggiore rispetto di questo bosso nei confronti dei suoi operai cfr. anche più avanti, all’ottava 13.
[488] Soggetto implicito sarà la ghiaia.
[489] Ms.: guastato è scritto a lapis nell’interlinea come correzione, o variante, di sciupato.
[490] Ms.: punto e virgola dopo cielo.
[491] La fonte di queste espressioni sarà da ricercare in testi legati alla liturgia del Natale.
[492] Soggetto di diedero, con di partitivo.
[493] Ms.: la s appare riscritta su una z. Cfr. immenza in Ricciardetto, III 30.3 e nota a II 147.6.
[494] Ms.: stara.
[495] Il verbo costringere è costruito con la preposizione di, come obbligare a II 157.1-2.
[496] Sottinteso naturalmente un ‘fui’. Prevedibilmente, l’imperfetta padronanza del codice alto della lingua si riflette soprattutto nella sintassi e dunque negli anacoluti, generati da una contaminazione fra espressione parlata, dal tipico andamento paratattico, e espressione scritta, anzi letteraria, che privilegia l’ipotassi. Questo incrocio di costruzioni è particolarmente frequente con i modi gerundio e participio passato, a conferma di una percezione popolare secondo la quale questi modi sarebbero relativamente “liberi” e passibili di coordinazione a frasi indipendenti. Cfr. L. Sorrento, Sintassi romanza. Ricerche e prospettive, Varese-Milano: Istituto Editoriale Cisalpino, 19512 , pp. 27-91. Fenomeni come la paraipotassi e il “gerundio coordinato con indicativo precedente” sono stati identificati dagli studiosi nell’analizzare testi italiani antichi: F. Ageno, Gerundio coordinato con indicativo precedente, “Lingua nostra”, XXVII (1966), pp. 114-117; S. Skerli, Syntaxe du participe présent et du gérondif en vieil italien, Paris: Champion, 1926.
[497] Per ‘stazione’. Francesismo (cfr. nota a II 35.2).
[498] La squadra dell’Andreoni viene spostata a lavorare nella divisione del North Dakota, ad est di Glendive. La cittadina originariamente chiamata Mingusville fu ribattezzata Wibaux nel 1895 in onore del più grande proprietario di bestiame della zona, il francese Pierre Wibaux.
[499] ‘Eravamo’. Cfr. nota a II 121.8.
[500] Cfr. nota a II 77.3.
[501] Ms.: noi tutti scritto sopra una cancellatura.
[502] Cfr. nota a II 118.4.
[503] Probabilmente un vagone riscaldato.
[504] Ms.: sti sta.
[505] La s di conclusione è riscritta sopra una lettera, probabilmente una z: mentre la s rappresenta la forma standard, la z poteva rappresentare la pronuncia, molto sonora, del vernacolo. Cfr. I. Nieri, Prefazione al Vocabolario lucchese, p. xi; S. Pieri, p. 119, L. Giannelli, Toscana (“Profilo dei dialetti italiani”, a c. di M. Cortelazzo), Pisa: 1972. Il significato della locuzione sarà, in questo caso, ‘per farla breve’.
[506] Ms.: d’avanti.
[507] Ms.: d’avanti.
[508] ‘Interrompere la corsa’. La misura del verso si ristabilisce col troncamento dell’infinito (tronca’), normale nel vernacolo lucchese.
[509] ‘Dava il controvapore, innestando la retromarcia’.
[510] ‘Dello scontro’.
[511] Variazione sulla formula “Si salvi chi può!”.
[512] Ms.: oh! ciel sublime.
[513] Cfr. nota a II 66.1.
[514] L’espressione di rare volte risulterà dall’incrocio delle espressioni “di rado” e “rare volte”. L’uso del verbo usare in questo contesto potrebbe riflettere il senso del verbo inglese to use to, ‘esser soliti’: insomma, ‘il macchinista di solito mettera i vagoni davanti alla macchina’.
[515] Ms.: oh!!!
[516] Bisbigli ha qui il senso inconsueto di ‘sospiri’, o ‘lamenti’. In questo senso si trova anche altrove nella letteratura popolare, cfr. p. es.: “La Moglie fa il Marito lagrimare / La Moglie è la cagion di più bisbigli, / La Moglie non attende a lavorare” nel Dialogo a due. Uno dice, che l’aver Moglie è fortuna: l’altro risponde, che l’aver Moglie è una gran disgrazia. Sull’aria della Polesana. Lucca: Baroni, senza data, p. 3.
[517] Per le altre due volte v. II 37 e II 136. Meno enfaticamente, anche il Lugnani attribuiva l’essere scampato a tanti pericoli alla protezione divina: “Molte volte ripenso al mio destino / che non fu, infine, troppo sciagurato; / esser dovea spezzato il mio cammino / più volte, ma fui sempre liberato; / forse perché il buon Dio dei genitori / mi tenne dai pericoli di fuori” (p. 244. E cfr. Leo Spitzer, Lettere di prigionieri italiani 1915-18. Presentazione di Lorenzo Renzi. Torino: Boringhieri, 1976 (1a ed. Bonn: Hansteinverlag, 1921), p. 147.
[518] Fiorentinismo.
[519] Interessante la consonanza con la nozione espressa nella canzone Chiare, fresche e dolci acque del Petrarca: “qualche grazia il meschino / corpo fra voi ricopra / e torni l’alma al proprio albergo ignuda” (vv. 17-19). Più che di reminiscenza diretta, si tratterà di nozioni ed espressioni entrate nel linguaggio dei colti (per esempio, dei predicatori) e orecchiate dalla gente del popolo, o entrate nella letteratura popolare.
[520] Coinvolgimento di sante presenze analogo a quello del Confiteor (preghiera liturgica della Messa), che veniva allora recitato in latino, ma di cui dovevano essere disponibili delle traduzioni in italiano: “Ideo precor beatam Mariam semper Virginem, beatum Michaelem Archangelum, beatum Joannem Baptistam, sanctos Apostolos Petrum et Paulum, omnes Sanctos et vos, fratres, orare pro me ad Dominum Deum nostrum”.
[521] Oggettiva dipendente dal si deve del verso seguente, con l’infinito introdotto dalla preposizione di.
[522] La desinenza si spiega probabilmente come retroformazione dalla desinenza -eri, -ieri del singolare nel vernacolo, confusa con la desinenza del plurale passeggeri (per ‘treno passeggeri’).
[523] Le ferrovie furono tra le prime grandi imprese ad adottare mezzi comunicazione celere come il telegrafo e il telefono: le ragioni risultano evidenti dall’episodio narrato.
[524] Femminile per costruzione a senso, sottintendente ‘una macchina’ o qualcosa di simile.
[525] Ms.: in’opera.
[526] ‘Si appiccava, si attaccava’. Agli inizi del secolo, in Toscana, il termine era restato vivo solo al livello popolare (G. Malagoli, Vocabolario pisano).
[527] Dieresi fra Signore e era.
[528] Da considerare bisillabo. Hoyt era una stazione fra Glendive e Fallon.
[529] Non c’erano le condizioni per impiantare un campo permanente.
[530] L’ausiliare essere col verbo terminare è forse indotto dalla costruzione pseudoriflessiva.
[531] Soggetto sottinteso sarà il treno che trasportava i lavoratori.
[532] Cfr. Gerusalemme Liberata: “e, qual tauro ferito, il suo dolore / versò mugghiando e sospirando fuore” (IV 1.7-8 [il passo imita l’Eneide II 222sgg]); Ricciardetto: “”e muglia sì che irato toro agguaglia” (I 82.6); Storia completa dei Paladini di Francia: “Questi mugghiando come un toro bestemmiava con gran furore” (p. 32).
[533] La grafia corretta corregge un precdente caro.
[534] Probabilmente per ‘dovevamo’.
[535] Ms. : i legname.
[536] O si ci con raddoppiamento incongruo della particella pronominale.
[537] Si dovrà ricavare un verbo reggente dal vanno caricate del v. 33. V. nota a III 10.8.
[538] A Medora la ferrovia attraversa il Little Missouri.
[539] Passato remoto del verbo stare nella morfologia toscana. Allo stesso modo il riandiede del v. 5 è il passato remoto del verbo ri-andare.
[540] V. nota a II 147.8.
[541] Ms.: cene.
[542] Ms.: 18.
[543] V. II 160.
[544] Per ‘sfoga i suoi rancori’, con enfasi espressionistica sul verbo.
[545] Da considerare monosillabo per la misura del verso.
[546] Anacoluto per ‘cambiamento di progetto’.
[547] In provincia di Vercelli.
[548] Per l’uso di persona a indicare genericamente un essere umano cfr. specialmente Paris e Vienna: “Niente facendo quell’alta Corona / Senza il consiglio della sua persona” (I 5.7-8) e passim (I 64.8, II 22.7, II 37.5-6, V 61.7-8, ecc.).
[549] Il vocabolario militare (l’autore aveva fatto il servizio di leva obbligatorio) si sovrappone a volte a quello della situazione d’immigrazione.
[550] Per ‘estranea’: non toscana. L’Andreoni segnala regolarmente la regione d’origine dei compagni di cui parla: a quarant’anni dall’unificazione politica dell’Italia le differenze regionali di lingua e costumi erano ancora percepite come significative.
[551] Al verbo dire è attribuita nel linguaggio popolare una larga gamma di significati, incluso, come in questo caso, quello di ‘domandare’.
[552] La religiosità dell’Andreoni si esprime non soltanto nelle formule di ringraziamento e di sottomissione alla volontà di Dio, ma anche nel desiderio sincero di osservare una condotta retta. A cavallo del secolo fu importante la lotta delle autorità religiose contro la bestemmia, e i predicatori raccomandavano di fuggire la compagnia dei bestemmiatori. Si veda, per esempio, un passo dell’Introduzione ad un libretto che entrò più tardi a far parte della biblioteca di Antonio: “E quest’apostolo [San Giovanni], che si chiamava della carità, vorrebbe che quando noi incontriamo qualcuno di tali peccatori, non diamo loro né anco il saluto. Bisogna che il mondo sappia come non [sic, ma sarà per ‘noi’] si disapprova la vita e le azioni di questi tali, e così ci separiamo da loro.” (G. B. Francesia, Introduzione a La famiglia del bestemmiatore. Racconto storico. Torino: Ufficio delle Letture Cattoliche, 1910, pp. 4-5)
[553] Ms.: la s riscritta sopra una z.
[554] Cioè: si diceva che era primavera, anche se il tempo non corrispondeva alla nozione che della primavera aveva l’autore. L’espressione è ripetuta a IV 21.
[555] Tipico completamento toscano di parola uscente in consonante.
[556] Soggetto sottinteso la neve.
[557] Per ‘dura, continua a nevicare’.
[558] Ms.: nota dell’autore: “bosso significa caporale”. Cfr. l’inglese boss.
[559] Ms.: arrivo scritto con due r, una poi cassata.
[560] Ms.: ad’iscavare. La prostesi di i-, frequente nel vernacolo lucchese, qui torna comoda per la misura del verso.
[561] Spostamento dell’accetto tonico per esigenze di rima.
[562] Forma della seconda persona dell’imperativo tipica del vernacolo lucchese (I. Nieri, Prefazione al Vocabolario lucchese, p. xv).
[563] Fra le tante occorrenze di giochi allitterativi sul verbo credere si potrà rammentare questa dell’Orlando Furioso: “Come io credo che credi, e creder dei / Ch’altrimenti far credere è fatica” (XLII 102.2-3).
[564] Il “Daily Yellowstone Journal” di Miles City annotava nel numero del 15 marzo: “Train n° 4 is reported as being up against the end of a snow drift in Dakota between Sentinel Butte and Medora and will [have] either to eat the snow or wait until the rotary can get to it…”.
[565] Ms.: il che iniziale dell’ottava 45 è scritto maiuscolo. Uno dei rari casi di continuazione della frase da un’ottava all’altra (altra occorrenza a II 134-135). Il verbum dicendi è implicito nella parola telegramma, come già a II 29, II 44, III 42.
[566] Ad ovest della capitale del North Dakota, Bismarck. Il nome Mandan deriva da quello di una delle tribù indiane residenti nella regione.
[567] Ms.: metri è scritto nell’interlinea. Fra non e trovavan un si cancellato con tratti di penna.
[568] Ms.: cene.
[569] Troncamento dell’infinito comune nel vernacolo lucchese. Una delle rare occorrenze in cui l’autore trascrive l’infinito tronco come tale (altra occorrenza a II 16.5).
[570] Ms.: parte e corre scritto sopra una cancellatura.
[571] Il ricorso a formule della tradizione cavalleresca, applicate a referenti incongrui, provoca a volte effetti comici come in questo caso.
[572] Cfr. I 21.7.
[573] ‘Lavorare come buoi’ non compare fra le “voci di paragone” riferite dal Nieri, che registra “Lavorare come un bufalo, come diavoli, come una bestia, come un miccio, come un facchino” (I. Nieri, Saggi scelti del parlar popolare lucchese, in Saggi linguistici, a cura di Amos Parducci, p. 135. Ma cfr. Ricciardetto: “gli lega tutti come tanti buoi” (VI 48.8).
[574] Singolare, con desinenza tipica dei vernacoli pisano e lucchese.
[575] Cfr. l’inglese device; ma ci sarà forse anche un incrocio con edifizio, per le dimensioni della macchina.
[576] ‘Un’altra macchina enorme’. Ms.: un’altro.
[577] La pronuncia con scempiamento della doppia r, tipica del vernacolo lucchese, ristabilisce la rima perfetta.
[578] L’ultima proposizione sottintende un verbo ricavabile solo a senso da ciò che precede.
[579] Prima stazione ad ovest di Mandan, sul torrente Sweet Briar.
[580] Gladstone, stazione ad est di Dickinson.
[581] Cioè ‘si scatena’. Per il Petrocchi, che la registra come voce non comune, la forma attiva scavigliare significa « levare dalla caviglia »; la quale ‘caviglia’ è un « bastoncello cilindrico di legno o di ferro, con capocchia, che si ficca nel muro o altrove come braccio o arpione per attaccarci qualcosa. » (P. Petrocchi, Nuovo dizionario universale della lingua italiana, Milano: Treves, 1909) Il Nieri offre i sinonimi ‘strigare, sviluppare, scavizzolare’, e spiega con l’esempio « Quella pigna d’uva è tutta intrigata fra i capi e i correnti : tu ‘un la scavigli se ‘un la levi a pezzi. »
[582] Ms.: la n di ancora è aggiunta a lapis nell’interlinea.
[583] ‘Pericolo’.
[584] Ms.: stà.
[585] Ms.: ad’ebron. Hebron è una cittadina ad est di Mandan, fondata nel 1885 dalla German Evangelical Society of America.
[586] Ms.: la a finale di carra riscritta sopra una i.
[587] Consonanza con un verso di Leopardi: “ciascuno in suo pensier farà ritorno” (Il sabato del villaggio, v. 42).
[588] Ad ovest di Mandan la strada ferrata corre lungo la valle del torrente Sweet Briar. Il tratto di ferrovia è così descritto in una fonte del 1883: “The Little Sweetbrier, winding from side to side of its narrow valley, required numerous short pile bridges. Lately the expedient of making cut-offs for this stream has been resorted to, and severalof the bridges have been replaced by enbankments.” (E. V. Smalley, History of the Northern Pacific Railroad, p. 396). La soluzione evidentemente non fu efficace contro gli allagamenti provocati dal disgelo primaverile e, successivamente il corso del fiume fu regolato con la costruzione di una diga.
[589] La pronuncia con scempiamento della r tipico del vernacolo lucchese ristabilisce la rima perfetta.
[590] Rima imperfetta.
[591] Ms.: sian’iti. Il participio passato del verbo ire è ancora vivo nel vernacolo lucchese.
[592] Conflazione di discorso diretto e indiretto. Cfr. I. Nieri, Postfazione al Vocabolario lucchese, p. 280; M. Cortelazzo, Lineamenti di italiano popolare, pp. 160-61. Stesso fenomeno nell’ottava seguente, 59.6-8.
[593] Ms.: oh!
[594] La locuzione battere un telegramma, non registrata dai dizionari, evoca naturalmente il battere sui tasti del telegrafo. Cfr. ‘battere a macchina, battere sullo stesso tasto’.
[595] Avverbio corrispondente all’aggettivo di prima classe, v. ottava 59.5.
[596] Ms.: ed’improvisamente. Lo scempiamento della v è forse un semplice sbaglio d’ortografia.
[597] Ms.: un’ordin.
[598] Per ‘destinazione’.
[599] Ms.: un’ordin.
[600] Il soggetto resta sottinteso. La particella ci scritta sopra una cancellatura.
[601] Riflessivo ‘etico’ (o sì, pensava?).
[602] Bel verso sintetico di cui non sono riuscita a rintracciare la fonte.
[603] Ms.: fra salto e e un sopra cassato con tratti di penna
[604] Ms.: dicknson.
[605] La misura del verso si ristabilisce col troncamento dell’infinito, tipico del vernacolo lucchese (ave’).
[606] Discorso indiretto libero.
[607] Conflazione delle costruzioni ‘come a Dio piacque’ e ‘come Dio volle’. Cfr. nota a II 37.1. Ms.: mici.
[608] L’Andreoni doveva aver acquisito un minimo di competenza linguistica in inglese (come è dimostrato anche dalla volenterosa imitazione delle forme scritte), almeno tanto da farsi capire dai funzionari della ferrovia, delle poste, delle banche. Il caboose è il vagone riservato al conduttore, collocato in coda ai treni merci, caratteristico delle ferrovie nordamericane.
[609] Ms.: dicknsone.
[610] Per ‘seduto’, o ‘accoccolato’? Il termine difficile è ricavato probabilmente dall’Orlando Furioso, che lo usa più volte in contesti nei quali il significato della parola non è del tutto perspicuo (“s’imperio nel mio cor s’aveva assunto” VI 12.6, “poi che compreso / il fine avrà del suo crudele assunto” VI 12.5-6, “Ma la sua intenzion, da quel ch’assunto / avea già di morir…” V 55.3, “un novo amante al loco mio fu assunto” VI 50.4).
[611] La pronuncia con scempiamento della r tipica del vernacolo lucchese ristabilisce la rima perfetta.
[612] Sottinteso un verbo reggente come ‘mi toccò’.
[613] V. III 35.
[614] Sorta di discorso indiretto libero nel riferire i pensieri che gli passavano per la testa.
[615] Ms.: in’ordine.
[616] Da completare idealmente con un “se fosse stato possibile”. L’imperfetto al posto del condizionale passato, a indicare il futuro nel passato, è comune nell’italiano non curato.
[617] Ms.: la parola chiesi è scritta sopra una cancellatura.
[618] Conflazione fra discorso diretto e indiretto.
[619] Esempio di costruzione con dislocazione a sinistra e ripresa pronominale comune nel linguaggio popolare.
[620] Ms.: hai.
[621] Ms.: ad’ano ad’un.
[622] Verso ipermetro.
[623] La sua squadra. Il Vocabolario lucchese del Nieri definisce gita come “quantità di persone o di cose che vanno unite insieme per un fine comune”. Un’accezione simile è segnalata da C. Salvioni nelle Cronache del Sercambi (I 273, II 66 e 67, III 81): “gruppo di persone delegate a un ufficio” (Appunti sull’antico e moderno lucchese, p. 446).
[624] Ms.: haveamo. Da pronunciare ‘avéamo’.
[625] Verso ipermetro, come già il v. 2 della stessa ottava. Forse l’autore pronunciava Mandan come Manda e e praticava l’elisione con la vocale della parola successiva.
[626] Ms.: bun’ora.
[627] Il punto e virgola nel manoscritto.
[628] Ms.: punto e virgola dopo partire.
[629] Come un drappello di soldati che si lascia ‘di scorta’ in un luogo mentre il grosso della colonna muove altrove.
[630] Ms.: un’impiegato.
[631] Ms.: ad’aprire.
[632] Ms.: vagon è scritto a lapis nell’interlinea sopra carro; quest’ultimo è sottolineato a lapis.
[633] Parentesi nel manoscritto; complemento di limitazione rispetto al tristo seguente.
[634] Stazione oggi scomparsa, situata fra New Salem e Judson. Il nome era stato ispirato alla più celebre città di Sedali in Missouri.
[635] Arguta conflazione fra livello narrativo e livello metanarrativo: i travagli e gli stenti narrati diventano il travaglio del narrare, che merita un’interruzione.
[636] Cfr. Paris e Vienna: “Essendomi, o Signori, riposato / Convien ch’io segua il mio ragionamento” (V 1.1-2).
[637] Modo di dire popolare, rinvenibile anche, per esempio, nella Storia di Pasquino in ottave (nota soprattutto sotto forma di contrasto) nella versione di Giovanni Fantoni: “Pasquino parte con parole umile, / sposa l’Annina e sazia ogni appetito, / allegro come un asino d’aprile / quando vede il trifoglio fiorito.” (Citato da M. Fresta, Canti popolari ed evoluzione della coscienza mezzadrile in P. Clemente et al., Mezzadri, letterati e padroni, p. 171)
[638] Anacoluto, con qualche congiunzione di troppo. Nell’uso dell’aggettivo virile potrebbe esserci un riferimento alle rappresentazioni allegoriche delle stagioni, in cui la primavera e l’estate sono rappresentate, secondo il genere grammaticale, come donne e l’inverno e l’autunno come uomini.
[639] Lo spostamente d’accento, per ragioni di rima, è autorizzato da modelli letterari.
[640] Ms.: la parola freddo è scritta a lapis nell’interlinea su verno, cancellato con un tratto di lapis. La correzione tendeva evidentemente ad evitare la ripetizione.
[641] Ms.: punto fermo dopo erano, e maiuscola la E seguente.
[642] Nota dell’autore: “Bibì sono fasci di legna con pietre in mezzo legate insieme.” Non è chiaro a quale parola inglese risalga il termine bibì. La tecnica di costruzione comune per le dighe prevedeva dapprima l’affondamento di un log o bush crib (sorta di gabbia fatta di tronchi d’albero o di fascine), che veniva poi riempito di fascine e pietre. Può darsi che il termine bibì riproduca imperfettamente l’inglese cribbing, sinonimo di crib.
[643] ‘Per prime’, incrociato con ‘in prima’. Rima imperfetta.
[644] Ms.: punto e virgola dopo ferme.
[645] Il fiume sarà lo Yellowstone, che in questo tratto scorre lungo la ferrovia. Per quanto non tutti i particolari corrispondano, è interessante leggere la descrizione di un tipo di lavoro simile nella storia della Northern Pacific Railroad, scritta mentre la ferrovia veniva costruita: “dove la corrente colpiva l’argine con maggiore forza […] divenne necessario allontanare il letto del fiume dalle sue sponde d’origine per mezzo di dighe erette fra un’isola e l’altra o di sbarramenti protettivi costruiti direttamente nel letto del fiume. Queste strutture si compongono di fascine di rami di salice di quattro metri circa di lunghezza, collocate due per due ad un angolo di 33° rispetto all’argine, con i vari strati disposti ad angolo retto l’uno rispetto all’altro. Le estremità più grosse delle fascine sono orientate a valle del corso del fiume in modo da conferire una certa pendenza alla cima della diga. Ogni strato di fascine viene fissato mediante pali conficcati ad una profondità di un metro e mezzo, le cui estremità superiori vengono legate assieme con cordami di 12 millimetri di diametro. Uno strato di ghiaia ci 45 centimetri di profondità viene indi versato su ogni strato. Penetrando fra i rami di salice, la ghiaia viene a costituire una solida parete che forma la base dello strato susseguente. Una volta raggiunta l’altezza voluta, la diga viene coperta di grosse pietre. La sabbia trasportata dal fiume finisce col riempire gli interstizi delle fascine, e i rami di cui esse si compongono, mettendo radici, coprono in breve tempo il tutto di vegetazione.” (E. V. Smalley, History of the Northern Pacific Railroad. New York: G.P. Putnam’ Sons, 1883, p. 399. Traduzione di Giorgio Predelli. Le misure anglosassoni sono state riportate al sistema decimale)
[646] Incrocio fra l’aggettivo (participio presente) bastante e l’avverbio abbastanza. L’aggettivo assume valore di avverbio. Per il lemma cfr. Ricciardetto: “e presan’una con forza bastante” (III 7.3).
[647] Inusuale troncamento di serra. Il senso del sintagma ci deve empire resta poco chiaro.
[648] Ms.: il verso è scritto sopra una cancellatura.
[649] Blatchford, stazione un po’ più a nord, in direzione di Terry.
[650] Una delle attrazioni dello stato del Montana, e che compariva anche nei manifesti pubblicitari della Northern Pacific Railroad, erano le sue foreste e le opportunità di caccia che queste offrivano. Ancora nel 1978 un’enciclopedia americana riportava: “The major game animal population is much larger than the human population and includes large numbers of deer, prairie dogs, gophers, chipmunks, and ground squirrels” (Encyclopedia International, Lexicon Publications, 1978, vol XII p. 240).
[651] L’amore per la caccia trova espresione anche nel bruscello Rondone e Rosalba (in Teatro popolare lucchese a c. di G. Giannini, 1895): “Oh quanto stanco io son dal camminare / Dietro uno stuol di lodole e fanelli, / Per a Rosalba bella regalare, / Che son per verità sì tanti e belli! / Or che vedo per aria, ora, passare, / Calandri, rusignuoli e firunguelli, / E con bell’arte e con gentil maniera / Spero col mio fucil gettarli in tera” (ottava 16).
[652] Per ‘companatico’. La scomparsa della c intervocalica è tipica del vernacolo lucchese.
[653] Manca il verbo essere nella frase principale.
[654] ‘A stormi’. Il Pieri dà sturma come voce del contado e ne riporta un esempio dagli Statuti lucchesi del secolo XVI (Fonetica del dialetto lucchese, p. 110), il Salvioni lo spiega come incrocio di turma più stormo (p. 473). Il Nieri lo include nel suo Vocabolario (p. 229) e R. Ambrosini lo riporta come voce ancora in uso, col significato di ‘gruppo’, per lo più di cani (Appunti lucchesi, “L’Italia dialettale, XLIII [1890], p. 357).
[655] Tutta la frase ha un sintassi zoppicante. Quest’ultima proposizione è idealmente un’altra dipendente della frase principale é un vero divertirsi, del tipo ‘quando poi correte snello…’.
[656] Vorrà dire ‘allo stesso modo’, ‘di nuovo’, sulla scorta dell’espressione in tal guisa.
[657] Semplice figura retorica basata sulla ripetizione e la progressione.
[658] Per ‘appassionato’, per esigenze di rima.
[659] Grondante di fame!
[660] Curiosa palinodia di uno che ha appena confessato di essere “stato sempre alla caccia troppo appassionato”. Tornato l’Andreoni in Italia, la sua passione per la caccia fu in effetti motivo di contrasti in famiglia.
[661] Verso ipometro, da integrare forse con epentesi di -e nella pronuncia della parola straniera. Stesso fenomeno al v. 3 dell’ottava seguente.
[662] Ms.: punto e virgola dopo spesa.
[663] L’ultimo verso è scritto a lapis sotto una precedente versione: dentro Montana ove si parla inglese.
[664] Cioè ‘il permesso’.
[665] La forma in nel è segnalata da Arrigo Castellani come tratto pisano-lucchese nell’introduzione ai Nuovi testi fiorentini del Dugento, Firenze; Sansoni, 1952, p. 50; ma la ridondanza preposizionale è anche un aspetto del linguaggio popolare. Cfr. M. Cortelazzo, Lineamenti di italiano popolare, p. 116.
[666] Nota dell’autore: “vale Glendive”. La variante riflette naturalmente la pronuncia inglese ed è interessante perché dimostra la conoscenza sia orale che scritta del nome.
[667] Cfr. l’inglese work-train.
[668] Nel vernacolo lucchese è ammesso anche il troncamento della finale –a.
[669] Fiorentinismo errato.
[670] All’inizio del Novecento la desinenza in –a per la prima persona dell’imperfetto doveva essere già arcaica e avvertita come letteraria.
[671] V. nota a III 26.4.
[672] Il caboose, o vagone del conduttore, era fornito di una cucina perché il personale potesse farsi da mangiare. Del resto il significato originario di caboose è proprio quello di ‘cambusa’, cioè cucinotto (a bordo dei velieri).
[673] Ms.: oh! rio fatal destino.
[674] ‘Serbatoio d’acqua’. Il pericolo d’incendi, data la presenza di un forno a carbone per far scaldare l’acqua che produceva il vapore, aveva fatto sì che lungo la ferrovia fossero installati dei serbatoi d’acqua, collocati in alto su apposite strutture. La mancanza dell’articolo rivela l’imbarazzo nell’uso della parola straniera.
[675] V. nota a II 26.8.
[676] Ms.: si aggiunto nell’interlinea.
[677] Per ‘dritto filato’?
[678] Ms.: punto e virgola dopo vaglia.
[679] Incrocio fra la forma letteraria dimane e la forma toscana domattina.
[680] Cfr. III 40.8.
[681] Le varianti del nome rivelano la difficoltà della grafia straniera.
[682] La pronuncia lucchese di guerra con la r scempia ristabilisce la rima perfetta.
[683] Cfr. II 160.3. Il senso del sintagma rimane oscuro.
[684] Ms.: al luogo, con la l della preposizione cassata con un tratto di penna.
[685] L’autore ha messo un numero di nota dopo sguiccio, ma non ha fatto la nota. La parola corrisponde all’inglese switch, ‘scambio’.
[686] Verso ipermetro.
[687] V. nota a II 66.1. Qui la scelta dell’anglicismo è dovuta anche a ragioni di prosodia (machine ha l’accento sulla i).
[688] Cfr. l’inglese wreck: doveva esser successo un disastro ferroviario.
[689] Nel testo non ci sono indicazioni che possano aiutare a identifice il luogo del disastro. Nella sua storia della linea ferroviaria, lo Smalley indicava un certo numero di ponti importanti nella divisione dello Yellowstone e precisava che i ponti, costruiti in legno, sarebbero stati, in futuro, sostituiti da strutture di ferro (E. V. Smalley, History of the Nothern Pacific Railroad, 1883, pp. 400-401). Evidentemente, dopo vent’anni la sostituzione per questo ponte non era ancora avvenuta.
[690] Ms.: l’intero verso è scritto sopra una cancellatura, nella quale si riconosce il primo verso dell’ottava seguente: a riprova che il nostro testo è una ‘bellacopia’ di un testo preesistente.
[691] Si ricordi che in Nordamerica le direzioni sono indicate comunemente con i punti cardinali.
[692] Paraipotassi. La costruzione anacolutica del v. 4 è forse indotta dall’uso di appena (ero appena arrivato che sentii un colpo).
[693] Il verbo passava ha come oggetto diretto il ponte del verso precedente.
[694] Dato il contesto, rasenti indicherà i vagoni che venivano immediatamente dietro la macchina.
[695] Forse ipercorrettismo per ‘compresse’: assi di legno compresso, o densificato.
[696] Cioè di tutti gli altri oggetti che vi erano stati caricati.
[697] Il punto e virgola nel manoscritto.
[698] Lo scempiamento del suono gutturale è stato registrato in machina da G. Giannini e I. Nieri (Lucchesismi, p. 27). Al verso successivo il sostantivo primitivo è scritto correttamente.
[699] Ms.: l’Andreoni aveva scritto salvav, poi ha corretto in salvasse; a questo punto ha corretto il passava del v. 2 n passasse, e scritto regolarmente arivasse al v. 6.
[700] Ma.: si scritto sopra un gli.
[701] Forse errore per ‘fece’; il verbo torna singolare al v. 4 (ambo le braccia gli fece troncare).
[702] Probabilmente ‘sul luogo’, anziché sul ‘treno locale’ (cfr. IV 36.7, IV 56.3). Il Nieri cita l’uso del termine locale come errore di lessico in un linguaggio intenzionalmente sostenuto: “…quanto più sono cólti e istruiti, ci ficcano qualcuno de’ peggiori difetti del loro vernacolo. Un tale […] volendo dire che il tempo non poteva mantenersi buono, disse: «Non è anche sera che medesimamente trona in questo locale»” (I. Nieri, Dei fatti transitori proprii delle lingue nell’atto in cui sono parlate, “Atti della Reale Accademia di Scienze Lettere e Arti di Lucca”, XXVIII [1895], citato da I. Nieri, Scritti linguistici, a cura di A. Parducci, p. 86).
[703] Ms.: una i aggiunta nell’interlinea.
[704] Cfr. il proverbio “Quando il gatto non c’è i topi ballano”.
[705] Come nella precedente occorrenza di sguiccio (IV 22.7), l’autore ha messo un numero come richiamo per una nota che non compare.
[706] La costruzione paratattica è da intendere come un’ipotetica.
[707] V. nota a II 120.2.
[708] Ms.: ne.
[709] Costruzione a senso, come se il soggetto fosse ‘il tempo’.
[710] Ms.: che la sera stessa scritto sopra una cancellatura.
[711] Incongrua attribuzione di qualità ad un treno merci!
[712] Gerundio coordinato con l’indicativo precedente.
[713] V. nota a IV 28.6.
[714] Per ‘sia… sia’.
[715] Il siasi è ridondante. Si noti l’indicativo (vuol) al posto del congiuntivo.
[716] Forma popolare per ‘cervo’. Ma anche nell’Orlando Furioso (X 78.6, XXXV 11.4).
[717] La movenza retorica di tipo superlativo relativo (37.1-3) accoppiata alla descrizione dei piccoli animali selvatici fa sospettare che sulla memoria poetica dello scrittore possa aver agito il ricordo dell’isola di Alcina: “Non vide né ’l più bel né ’l più giocondo / da tutta l’aria, ove le penne stese: / né se tutto cercato avesse il mondo, / vedria di questo il più gentil paese /… Sicuri si vedean lepri, e conigli / e cervi con la fronte alta e superba” (VI 20.1-4, 22.3-4).
[718] Desinenza del congiuntivo presente in –i, viva in molti dialetti toscani. Sortire è il verbo usato regolarmente nel lucchese per ‘uscire’.
[719] Ms.: io riscritto sopra ne.
[720] Nominativus pendens.
[721] Per ‘abbastanza’ nell’uso popolare toscano e particolarmente lucchese. Cfr. F. Romani, Toscanismi, Firenze: Bamporad, 1907, p. 26.
[722] Costruzione paraipotattica con frase participiale irregolare (verbo intransitivo di carattere durativo: cfr. L. Renzi e G. Salvi, Grande grammatica italiana di consultazione, vol. II, p. 593.
[723] Accordo a senso. Da notare l’assenza della preposizione ‘di’.
[724] A giudicare da quello di cui parlano.
[725] ‘Indebitati’. Sui “tarli monetari che tormentavano le campagne italiane e che furono all’origine di molte decisioni di espatrio” v. E. Sori, L’emigrazione italiana dall’Unità alla seconda guerra mondiale, pp. 82-84.
[726] Articolo non palatalizzato. Cfr. F. Romani, Toscanismi, p. 24.
[727] ‘Mi pare un gesto scorretto’.
[728] Desinenza del congiuntivo presente tipica del toscano popolare.
[729] Ms.: rifà.
[730] Il Nieri registra il paragone “Passa come il fumo dei maccheroni” (Saggi scelti del parlar popolare lucchese in Scritti linguistici, a c. di A. Parducci, p. 138).
[731] Forse errore per giunto il giorno.
[732] Ms.: prima di hoit una vocale cancellata sembra indicare che l’autore aveva dapprima incominciato a scrivere o(it).
[733] Verso ipometro. Si fornisce, usato in senso intransitivo, significherà qualcosa come ‘si provvede a’, ‘si fornisce il lavoro’.
[734] Ms.: à.
[735] Ms.: quai tristi scritto sopra una cancellatura.
[736] L’anno dopo, nel 1903, l’Andreoni si farà raggiungere dal figlio maggiore Eugenio, quattordicenne, che lavorò insieme al padre e rimase poi in America.
[737] Cfr. III 22. Dietro quest’espressione potrebbe esserci un passo della Gerusalemme Liberata: “Ma ecco ormai l’ora fatale è giunta / che il viver di Clorinda al suo fin deve” (XI 64.1-2).
[738] Il male “torna” in salute, come l’allegrezza tornò in pianto, e viceversa.
[739] Participio passato contratto, proprio del vernacolo lucchese.
[740] Ms.: Creatoro.
[741] Incrocio fra ‘come a Dio piacque’ e ‘come Dio volle’.
[742] Fra Hoyt e Fallon.
[743] Il soggetto implicito sarà il treno, ma il senso è quello di ‘ci si ferma, per installare il campo’ (come anche al v. 1 dell’ottava seguente). La prostesi di –i (istessa) davanti a s impura è comune nel vernacolo lucchese
[744] Ms.: doveravamo.
[745] Cioè ‘che non ci si movesse’.
[746] ‘Basta che uno stia bene di salute’.
[747] Si fa sosta, si interrompe il lavoro.
[748] Per ‘selvaggina da ammazzare’.
[749] Congiunzione e di troppo.
[750] Per ‘companatico’. Termine idiosincratico.
[751] V. nota a I 7.7.
[752] Desinenza del toscano popolare, come anche al verso seguente.
[753] Per ‘i compagni più cari’. Il più preposto al sostantivo anziché all’aggettivo è registrato come lucchesismo in G. Giannini- I. Nieri, Lucchesismi, p. 93.
[754] Il foglio del manoscritto è danneggiato: le prime due lettere sono congetturali, così come tutte le altre in parentesi quadre nel seguito del testo.
[755] Verso ipometro, ma facilmente restituibile inserendo l’articolo davanti a causa.
[756] Locale per ‘luogo’. Cfr. nota a IV 28.6. L’espressione con graziosi carmi, incongruente nel contesto, porta una connotazione genericamente positiva nei confronti del soggiorno a Conlin.
[757] ‘Si caricano’ (forma impersonale per la prima persona plurale: noi s’imbora le stufe). Da imborrare, ‘riempire, caricare’, con scempiamento della r geminata. Da pronunciare con la o aperta: il Nieri segnala infatti bòrra fra le parole che divergono dal fiorentino per l’apertura della o tonica. Per lo Zingarelli il verbp imborrare è intransitivo (‘riempirsi di borra’), ma i corrispondenti francesi bourrer, rembourrer, e l’antiquato embourrer sono transitivi: cfr. la locuzione bourrer un poêle, che corrisponde esattamente al nostro contesto (P. Robert, Dictionnaire alphabétique et analogique de la langue française, Presses Universitaires de France, 1953).
[758] Ms.: punto fermo dopo vento e E maiuscola.
[759] L’uso del relativo è evidentemente scorretto; ma si potrebbe indicare una costruzione simile nell’Orlando Furioso: “Di cui bevendo, ad Angelica nacque / l’odio…” (XLII 61.3-4), dove le acque a cui il pronome relativo si riferisce sono abbastanza lontane, nel co-testo, da indurre in errore un lettore sprovveduto.
[760] Leggendo questo mio resoconto troverete tanti episodi che potranno essere confermati da tutti quelli che furono con me.
[761] Il dativo dipende idealmente da una verbo ‘dimandare’ ricavabile dal v. 2.
[762] Per ‘asserire’, cioè testimoniare, confermarne la veridicità. Le proteste di veridicità sono comuni nelle lettere e nei resoconti degli emigranti (e degli scrittori popolari in genere). Cfr. per esempio il Lugnani: “Se un po’ vi parlo di quella campagna, / bugiardo mi chiamate per un mese; / ma se di là per caso voi passate, / ch’è verità in persona costatate” (Sulle orme di un pioniere, p. 207).
[763] I fatti che sono stati “progettati”, cioè elaborati poeticamente dall’autore.
[764] Ms.: ritrovete.
[765] Cfr. Paris e Vienna: “al Ciel piace / Ch’io me ne vada, e voi restate in pace!” (III 45.7-8); “Addio, restate in pace!” (V 48.8), “Vi salvi il Cielo, e voi restate in pace! (VI 75.8).